Quando la mattina del 18 agosto il fratello e l’avvocato di Mustafa al-Jabrouni, un tassista 34enne del Cairo, hanno chiesto sue notizie, certo non si aspettavano che da quel momento gli indizi li avrebbero portati, a fine giornata, davanti all’obitorio di Zeinhom, nel cuore della capitale egiziana. Loro, e il resto dei familiari del tassista, fino a quel giorno lo sapevano recluso nella prigione della città di Damanhour, sul delta del Nilo, ormai da circa cinque mesi. Solo implorando aggiornamenti e scavando nel buio in cui le autorità li avevano lasciati, sono riusciti ad arrivare a una parziale verità sull’accaduto. Mustafa al-Jabrouni alla morgue di Zeinhom c’era arrivato ormai da giorni visto che la sua morte risaliva addirittura al 10 agosto.

Nessuno, nel frattempo, aveva avvisato la famiglia del tassista e il suo legale, ignari addirittura che il loro caro fosse, nel frattempo, stato trasferito in un’altra prigione e in un’altra città. Da Damanhour al Cairo e soprattutto all’interno della terribile prigione di Tora, nota alle cronache per alcune morti improvvise e misteriose e per ospitare, nel braccio denominato Scorpion II, i prigionieri di coscienza: “Abbiamo scoperto tutte queste cose per caso – spiega a Ilfattoquotidiano.it Nabih al-Janadi, l’avvocato della vittima – Le autorità non ci avevano comunicato il trasferimento e poi la morte di Mustafa. Ancora non ci hanno neppure spiegato i motivi e la data del suo passaggio a Tora. Le misure di sicurezza applicate a causa dell’emergenza pandemica coronavirus hanno ristretto ulteriormente le maglie, riducendo le visite in carcere e le comunicazioni. Dopo essere stato arrestato, a fine marzo, di Mustafa non abbiamo saputo più nulla per oltre un mese, fino a quando, il 10 maggio, è comparso davanti al giudice che ha formulato l’accusa nei suoi confronti”.

Sulle modalità dell’arresto e dell’addebito nei confronti di al-Jabrouni le analogie con Patrick Zaki, lo studente egiziano arrestato il 7 febbraio di rientro da Bologna dove stava seguendo il programma Erasmus, sono evidenti. Il tassista si era lasciato andare a dei commenti sul suo profilo Facebook nei confronti della gestione dell’emergenza Covid-19 da parte del governo egiziano. Pochi post, sufficienti, come nel caso di Zaki (i suoi, pubblicati tra settembre e ottobre 2019, quando si trovava in Italia per seguire il corso presso l’Università di Bologna, erano in appoggio alle proteste di piazza in tutto il Paese del 20 settembre), per far prelevare gli autori con la forza e portarli in carcere. Identico il capo d’imputazione emesso dalla Procura per la sicurezza dello Stato: diffusione di notizie false attraverso i social e l’essersi unito ad un gruppo terroristico.

Il vero mistero, tuttavia, è legato alla causa della morte di al-Jabrouni. Stando al resoconto da parte delle autorità carcerarie di Tora, la mattina del 10 agosto il tassista è morto folgorato mentre stava svolgendo le sue abluzioni quotidiane: con una mano bagnata avrebbe toccato un bollitore prendendo la scossa che l’ha ucciso sul colpo. “In carcere e nelle celle, specie a Tora, l’uso del bollitore non è consentito, mi sembra strano che la dinamica della morte del tassista sia questa”, è il commento del dirigente di una delle principali organizzazioni per la tutela dei diritti umani del Cairo che preferisce restare anonimo.

In effetti, i punti oscuri dietro l’episodio sono tanti e il rapporto stilato dai vertici di Tora non aiuta certo a chiarirli. Oltre alla causa della morte ci si chiede come mai siano passati otto giorni prima che alla famiglia e all’avvocato della vittima sia stato comunicato il decesso: “Nel rapporto ricevuto dall’obitorio di Zeinhom – aggiunge al-Janadi – si parla anche dello svolgimento dell’autopsia sul corpo di Mustafa, ma in allegato manca l’esito. È nostra intenzione chiarire quanto accaduto, chiederemo un ulteriore esame autoptico per stabilire i dettagli del decesso”.

Difficile non sollevare dubbi attorno a questa morte così come per altri casi, anche recenti. A partire da quello del giovane regista Shady Habash, morto a Tora il 2 maggio scorso dopo aver ingerito del disinfettante, forse per errore, non curato a dovere dalle autorità sanitarie del carcere e lasciato agonizzante in cella. Oggi, 21 agosto, Shady avrebbe compiuto 25 anni.

L’ultima morte sospetta dentro le mura della prigione di Tora, una dozzina di chilometri a sud di piazza Tahrir al Cairo, ha i crismi del caso ‘eccellente’ vista la portata della vittima. Si tratta di Essam el-Erian, 66 anni, uno dei leader dei Fratelli Musulmani, in prigione dopo il golpe del 2013 che ha rovesciato l’ex presidente Mohamed Morsi, stroncato da un infarto fulminante il 17 giugno 2019 durante un’udienza in tribunale al Cairo. Con una sfilza di ergastoli sul groppone, anche al-Erian è morto a causa di un attacco di cuore la sera del 13 agosto scorso all’interno della sezione Scorpion del carcere di Tora. Sembra, stando a quanto riferito dai vertici della prigione nel loro rapporto, che il noto politico abbia accusato il malore fatale durante un’accesa discussione con alcuni compagni di cella, anch’essi legati alla Fratellanza.

È soltanto un caso, ma la morte di al-Erian è avvenuta proprio nel bel mezzo di due anniversari molto importanti. Il 12 agosto del 2012 l’ex presidente Morsi, vincitore delle prime elezioni dopo la Rivoluzione di piazza Tahrir del gennaio 2011, nominava ufficialmente l’attuale presidente, Abdel Fattah al-Sisi, suo ministro della Difesa. Lo stesso che meno di un anno dopo, nel luglio del 2013 avrebbe orchestrato il golpe. Il 14 agosto del 2013, invece, è stato il triste anniversario delle stragi nelle piazze Rabaa e Nahda, al Cairo, in cui furono uccise circa mille persone durante i sit-in dei sostenitori dell’ormai ex presidente Morsi. Quel giorno al-Erian si trovava già in carcere da un mese.

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