La notizia che la vicenda criminale di Avetrana e dei suoi protagonisti – Sarah Scazzi, “zio Michele”, Sabrina Misseri e Cosima Serrano – stia per diventare una serie televisiva non stupisce nessuno e ciò per alcune ragioni molto semplici: da un lato perché quel delitto ha rappresentato l’apoteosi del “crime show” in versione “pop justice”; dall’altro perché i grandi casi criminali hanno storicamente stuzzicato i palati voyeuristici della collettività e chiamato a raccolta le “tricoteuses” di ogni epoca.

D’altronde, anche le vicissitudini di Amanda Knox hanno meritato la stessa sorte letteraria e cinematografica e Azouz Marzouk, colpito da un procedimento piuttosto paradossale (è accusato di calunnia per aver affermato all’Autorità Giudiziaria che Rosa e Olindo si sarebbero falsamente accusati della strage di Erba) si è raccontato alla giornalista Stefania Panza ed il saggio risulta in corso di pubblicazione proprio in questi giorni.

Nessuno stupore dunque: la vita sociale è fatta di queste storie di sangue e la società dell’immagine non può certamente farsi sfuggire i grandi “gialli” e i “noir” del nostro tempo. Ma la “pop justice“, la nuova forma-prodotto del “crime” ha una forza dirompente e mai conosciuta precedentemente: essa è in grado di desertificare ogni diversa forma di racconto criminale: dal romanzo classico al documentario, passando dalla giustizia mediatica. La pop justice non ha nulla a che vedere con l’approfondimento giuridico, criminologico o antropologico del delitto.

Si traveste da tutto questo, ma è ben altro: la “pop justice” è l’approdo ultracapitalistico del nostro stile di vita, dove tutto è merce non è possibile fermarsi davanti al bene o al male. Anche il male più terribile diviene una merce appetitosa, al pari della reazione contraria e cioè il desiderio di bene e commozione. Lo abbiamo visto per i grandi attentati terroristici.

Avetrana ha vissuto per lungo tempo come un fumetto dell’Italia più rurale che ha conquistato l’attenzione del resto della Penisola. Non importa che “il merito” sia ingenerato dal sangue innocente di una povera ragazza. L’importanza è vendere la nuova “statuetta” del Presepe criminale. La chiave perché una vicenda possa dirsi realmente “pop” è quella di trasformare i luoghi ed i protagonisti in personaggi rappresentativi del territorio e del sentire più profondo e nascosto della gente.

Un tempo la provincia e la sua gioventù cercavano l’emancipazione con le parole di Vasco Rossi; oggi un intero paese si inventa centro del mondo per un delitto. Perché la giustizia sia “pop” è indispensabile che i suoi protagonisti e le sue comparse possano essere trasformate in un “prodotto da banco” da vendere nel bazar della vergogna, dello scandalo e del senso di vendetta.

Per parlare “vis à vis” alla collettività, la “pop justice” adotta una mossa decisiva: disinteressarsi dell’esito giudiziario dei fatti (anche se all’apparenza la finalità è il trionfo della giustizia) e creare intorno ai fatti un reality, un fumetto, un romanzo, un “feuilletton”, un prodotto puramente emozionale e vertiginoso. Per la “pop justice” la fine della vicenda giudiziaria non rappresenta uno scopo da raggiungere (com’era per la giustizia mediatica che era, comunque, servente al processo) ma, piuttosto, un impaccio nel proseguo del romanzo a puntate.

Ma c’è sempre la possibilità di avere la revisione “pronta per essere presentata” per garantirsi un’appendice sicura del fotoromanzo criminale. Non è possibile sapere in anticipo se la versione cinematografica del delitto di Avetrana potrà vantare la caratura culturale di film quali Jfk di Oliver Stone o Il Mistero Von Bulow di Barbet Schroeder (che si è anche avvalso della collaborazione del grande avvocato Alain Dershowitz, difensore dell’imputato, che ha ottenuto l’assoluzione di Claus Von Bulow in appello).

Ma la vera differenza con questi capolavori culturali è dettata dallo strapotere contemporaneo della “pop justice”: essa ha i caratteri dell’inevitabilità culturale; è il coté giallo-noir della società che si alimenta compulsivamente delle immagini di Instagram e del nulla ripetuto che quella forma di socialità chiede ai suoi cittadini virtuali. Ed allora non resta che attendere la serie televisiva sul caso dell’omicidio di Sarah Scazzi, tenendo presente una circostanza: nessuna riproduzione cinematografica può battere il reality della “pop justice.”

Lo spettatore ha già visto tutto di Avetrana e dei suoi protagonisti. La “pop justice” ha raso al suolo la giustizia mediatica, il processo classico ed ogni forma di “remake” letterario o culturale del “crime show”.

Nota di trasparenza: Luca D’Auria è il legale di Azouz Marzouk, padre di Youssef e marito di Raffaella Castagna (entrambi uccisi nella strage di Erba)

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