Gli studenti hanno sempre avuto una relazione turbolenta con i proprietari delle case che li ospitano, lautamente gratificati. Costoro fanno orecchie da mercante se una giovane inquilina si duole per la doccia che langue o la lavatrice in panne. Ma protestano vivacemente per il chiasso, dichiarato intollerabile dopo le dieci di sera, o per la gestione maldestra dei rifiuti: un giovane “foresto” – e perciò inesperto – non coglie immediatamente tutte le sfaccettature delle usanze locali, giacché in Italia una lattina di birra ha un diverso destino a seconda della città dove viene consumata.

Più che nipotini da coccolare, i proprietari di casa che arrotondano le proprie entrate con gli affitti annuali o stagionali – quali sono quelli studenteschi – vedono nei giovani ospiti un comodo bancomat. Spesso esentasse.

Da grandi, molti ex-alumni ricorderanno con nostalgia queste scaramucce. Vivere in una città universitaria è di per sé una esperienza che segna il percorso formativo di ogni giovane, narrata da una moltitudine di romanzi di formazione. La relazione tra padrone di casa e inquilino non sia proprio l’ideale, ma non si può negare che qualsiasi relazione sociale è sopportabile quando è infusa di quello spirito di simpatia umana che qualifica la vita per l’immortalità, come chiosava George William Russell, il poeta, irredentista e teosofo irlandese che si firmava con lo pseudonimo Æ.

L’empatia svanisce quando attenta al portafoglio. Un recente sondaggio della Unione Nazionale degli Studenti del Regno Unito ha rilevato che circa un terzo degli studenti ritiene che il ritorno forzato in famiglia, spesso così precipitoso da dover abbandonare le proprie cose, dovrebbe autorizzarli a liberarsi in anticipo dai loro contratti di affitto. Tuttavia, la possibilità di farlo è stata offerta a meno di un decimo di costoro.

Non conosco indagini simili per le città universitarie italiane, dove l’operazione sarebbe più ardua per la prevalenza del nero, ma dubito che il risultato sarebbe molto diverso sia in termini di economia sia in quanto a empatia.

Come ha scritto Stefano Zanette su Il Giorno del 8 giugno 2020, l’impatto della pandemia su Milano e Pavia, le maggiori città universitarie lombarde, non sarà indolore. Parlando di “Milano, capitale degli studi universitari, con 183mila iscritti nei cinque (?) diversi atenei cittadini”, la città “non teme un contraccolpo economico devastante dal blocco – si spera temporaneo – delle lezioni e degli esami in presenza. Ma il peso dei fuori sede e dei tanti pendolari che da tutta la Lombardia convergono sulla metropoli per l’istruzione d’eccellenza di tantissimi corsi è comunque molto rilevante. Una matricola su dieci, in Italia, è a Milano”. E per valutare il costo dell’alloggio nella capitale lombarda, basta immergersi in uno dei molti siti internet dedicati all’affittanza studentesca.

Il peso dell’indotto dei circa 15mila studenti stranieri di Milano vale, solo per questa voce, almeno 200 milioni di euro. In totale, l’indotto rasenta i 700 milioni all’anno, secondo alcune stime. E un calcolo approssimativo che tenesse conto di tutti gli aspetti della vita di uno studente fuori sede – dalle rette al vitto, dai trasporti alle librerie, dalla movida alla cultura – potrebbe indicare cifre anche più elevate.

Non siamo ai livelli londinesi, dove la forte domanda da parte degli studenti internazionali ha fatto lievitare gli affitti annuali a cifre stratosferiche, tipo 27mila sterline. Ma, nel prossimo futuro, frequentare da fuori sede un corso universitario a Milano, alloggiando nell’area metropolitana, potrebbe diventare un sogno impossibile.

L’internazionalizzazione è un fenomeno abbastanza nuovo in Italia, nonostante che, fin dal Basso Medioevo, il nostro paese fosse un’ambita meta studentesca. Secondo gli ultimi dati dell’Unesco, anno 2017, il tasso di mobilità in entrate (inbound mobility rate) del nostro paese è tuttora modesto, poco più del 5% con una netta prevalenza della presenza femminile.

Non siamo certo ai livelli australiani (21%) o inglesi (18%), dove le alte rette di iscrizione fanno presagire alte perdite da parte degli atenei; ma nemmeno ai livelli francesi (10.2%) o tedeschi (8.4%) dove la perdita per le mancate rette sarà trascurabile, poiché frequentare l’università è senz’altro a buon mercato.

Un altro nodo che renderà critico un mero ritorno al passato riguarda il distanziamento. Come fornire alloggi conformi ai regolamenti governativi in materia di distanziamento sociale? Le residenze gestite dagli enti pubblici o dalle stesse università potrebbero veder diminuire l’offerta, già insufficiente, in modo drastico. Come si comporteranno i padroni di casa in questa materia?

In ossequio al dettato ministeriale, le autorità accademiche italiane si stanno barcamenando tra una serie di proposte ibride. In alcuni casi, alternare la didattica remota con quella in presenza richiede importanti investimenti. Senza contare che, prima della pandemia, pochi docenti avevano vissuto una esperienza di e-learning, mentre una nutrita maggioranza di costoro ne conosceva l’esistenza soltanto per via della pubblicità radiofonica fatta in modo martellante da alcune università telematiche.

E questi colleghi, con il disprezzo tipico degli incolti, le avevano subito battezzate “Scuole Radio Elettra” di bossiana memoria. Ci sono buone e mediocri università telematiche così come ci sono buone e mediocri università tradizionali, ma spesso si ragiona da tifosi.

Come ho scritto in Morte e Resurrezione delle Università, per comprendere molte scelte dell’istruzione superiore bisogna seguire il profumo dei soldi. La pandemia ha spiazzato un sistema complesso, dove i massimi sistemi finanziari ed economici convivono con economie locali fortemente dipendenti all’insediamento universitario. E, ragionando sulle città dove ho insegnato, non penso tanto a Milano quanto a Boston-Cambridge o a Fort Collins.

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