Quando l’uomo fu portato in ospedale, gli dissero che la moglie e la figlia erano gravissime e lo prepararono al peggio. La prima a morire fu Manuela e pochi giorni dopo fu seguita da Natalia. Era ricoverata nel reparto di rianimazione dell’ospedale Bellaria e il suo cuore si fermò mentre si stavano celebrando le esequie della bambina, vestita con l’abito della prima comunione. La bomba uccise anche un’altra madre con la figlia. Si chiamavano Anna Maria Salvagnini, cinquantun anni, e Marina Antonella Trolese, sedici. La donna, un’insegnante, morì subito mentre l’agonia della ragazza durò dieci giorni, fino al 12 agosto, quando cessò di vivere nell’ospedale di Padova. Suo padre Luciano sperò fino all’ultimo in un miracolo, ma rimase solo con gli altri due figli, Chiara Elisa e Andrea Pietro.

Il 2 agosto 1980 avrebbe dovuto rappresentare un nuovo inizio per Elisabetta Manea, sessant’anni, partita da Marano Vicentino alla volta della Puglia con il più giovane dei suoi figli, Roberto De Marchi, ventun anni, una promessa della Volley Sottoriva. Viaggiavano in una carrozza di prima classe perché Elisabetta aveva subìto da poco un intervento chirurgico. Abituata al lavoro duro fin da giovanissima, quando era rimasta orfana, aveva cresciuto i cinque fratelli più giovani. Poi, nel 1970, era rimasta vedova e di nuovo si era rimboccata le maniche per consentire ai figli di scegliere come costruirsi la propria esistenza. Appreso dell’esplosione, Mario, il figlio di Elisabetta, chiamò il fratello Angelo e si precipitarono a Bologna, dove seppero che era stato ritrovato il corpo di Roberto. Della madre non c’erano ancora notizie e in serata decisero di raggiungere Jesolo, dove c’era il quarto fratello, per tornare nel capoluogo emiliano tutti insieme. In tempo per sentirsi annunciare che anche per Elisabetta non c’era stato nulla da fare.

Come Elisabetta, anche Pasquale Cardillo, sessantasette anni, avrebbe dovuto trascorrere un periodo di convalescenza. Con la moglie Lidia Olla, sua coetanea, era partito da Cagliari per Cavalese, in Trentino. La prima parte del viaggio l’avevano fatta con la figlia Rosalba e a Civitavecchia si erano salutati. La ragazza aveva proseguito per Livorno e la coppia, a Bologna, avrebbe fatto tappa per un paio d’ore. Quando l’ordigno esplose, Pasquale fu scaraventato contro il treno fermo sul primo binario riportando ustioni di secondo e terzo grado in tutto il corpo. Fu portato all’ospedale Maggiore. Di Lidia, nelle prime ore, non si seppe nulla e fu Rosalba a riconoscerla, quando a sua volta arrivò a Bologna. Era morta sul colpo. Il Trentino era la destinazione anche di Maria Idria Avati, ottant’anni. Partita da Rossano Calabro con la figlia Giuditta, era arrivata a Bologna con un paio d’ore di ritardo e un facchino l’accompagnò nella sala d’aspetto di prima classe. A quel punto, pochi minuti prima dello scoppio, Giuditta andò alla toilette e quanto tornò alla ricerca della madre la trovò ancora viva. Sull’ambulanza che le soccorse, però, c’era posto solo per Maria e la figlia, confusa e disorientata, la raggiunse al Maggiore dove non avevano potuto fare niente per salvare la madre.

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Il 2 agosto 1980 la strage di Bologna, esseri umani non numeri. Chi erano tutte le vittime della bomba alla stazione: 85 morti e 200 feriti

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