Ci sono alcune evidenze sulle quali vorrei ragionare in occasione di un dibattito che si tiene oggi alla Triennale di Milano. Un momento insieme a persone che come me non hanno risposte a tutto, ma si pongono invece tante domande come Sex and The City 2020, realtà che persegue una lettura di genere degli spazi urbani.

Perché quello che è accaduto – Covid a parte – in questo mondo post-covid ha trasformato piccole preoccupazioni in piccole paure, e brutti sogni in brutti incubi. Ripeto, non è il Covid. È quello che abbiamo scoperto, occupandoci di noi e dei nostri figli: cose che non sapevamo perché non avevamo avuto sufficiente terrore per pre-occuparcene.

Per esempio, davamo per scontato il nostro lavoro. Di poter lavorare. Di averlo, un lavoro. E poi, che i nostri figli avrebbero avuto il diritto allo studio garantito. Per carità, cose che non riguardano solo noi, perché oggi vengono raccontate con precisione in uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) che tocca tutti i Paesi europei, dal titolo Schooling Disrupted, Schooling Rethought che stupisce, per profondità di ricerca e per soluzioni, anche.

Ma ci sono cose che sono capitate un po’ di più in Italia, avendo avuto una “chiusura” record rispetto agli altri Paesi europei. Vediamo innanzitutto cosa è accaduto qui, da febbraio ad oggi. Da fine febbraio, e altrove da marzo, tutte le scuole sono state chiuse e per molte di noi è iniziato lo smart working. Secondo un’indagine di Valore D su 1300 dipendenti per una su tre lo smart working si è presto trasformato in extreme working. Il motivo? I carichi sbilanciati di lavoro e famiglia: abbiamo lavorato giorno e notte.

Prima del lockdown, secondo Doxa, “solo” 570.000 persone in Italia facevano smart working. Ma questo dato era relativo ad aziende con più di 10 dipendenti, ed escludeva le partite Iva. Il numero esatto delle smart worker oggi coinvolge certamente più di un milione di persone. Quelle che invece il lavoro non lo avevano, o lo avevano in nero, oggi proprio non lavorano più.

E in ogni caso, il dato preoccupante, al di là del calo delle nascite nel 2020, è che 37mila neomamme – secondo l’Ispettorato del lavoro – hanno già dovuto lasciare il lavoro. E questo è vergognoso. E’ una cosa che non dovrebbe succedere in nessun Paese del mondo, così come i 1200 euro di bonus baby sitter per 6 mesi: io l’ho speso in meno di un mese pagando secondo i temini di legge le collaboratrici che si occupano di mio figlio.

Oggi è uscito il libro The Pandemic’s Toll on Women, il libro in cui Melinda Gates approfondisce l’impatto negativo sproporzionato del virus sulle donne: 15 milioni di gravidanze non pianificate; tagli all’assistenza per la maternità che minacciano la vita di 113.000 madri; gli effetti sugli operatori sanitari, che per il 70% sono donne; l’impiego, che le donne perdono 1,8 volte in più degli uomini; il lavoro femminile non pagato, aumentato con le scuole chiuse; violenze e abusi domestici; il blocco dell’istruzione per troppe giovani.

Senza interventi mirati – scrive Melinda – ad esempio per l’inclusione digitale e finanziaria delle donne, i danni costeranno 5 trilioni di dollari al Pil mondale entro il 2030.

E in Italia? Ecco cosa abbiamo capito che accadrà nel breve periodo. A giugno luglio sono stati aperti i centri estivi, gestiti da privati e terzo settore. A pagamento. Ma chi ha bimbi tra gli 0 e i 6 anni sa che gli asili e le materne pubbliche, hanno insegnanti per lo più anziani, il 40 per cento ha più di 55 anni, e che non sono garantiti i servizi e gli orari passati, né tanto meno i posti.

Se una mamma non ha lavoro, o lo ha perso, a maggior ragione non ha possibilità di lasciare il bimbo al nido. Per gli altri studenti di elementari, medie e superiori, circa 8 milioni, mancano 1,2 milioni di posti, le famiglie dovranno farsi carico di misurare la temperatura corporea a casa (diventa responsabilità dei genitori) e c’è il rischio di dover pagare di più per avere gli stessi servizi a enti terzi che proseguiranno il lavoro dei docenti durante orari dimezzati.

Viene presentato come inevitabile il ricorso alla didattica a distanza come soluzione non solo congiunturale, ma come parte integrante del “discorso” formativo, pur essendo evitabile. Inoltre, si stanno spendendo soldi – tanti soldi – per comprare gli arredi scolastici più antiecologici della storia del dopoguerra. Sedie di plastica, non ergonomiche, non di design, che presumibilmente faranno stortare schiene e intraprendere gare di girello nei corridoi.

Ma allora, perché non spendere in ristrutturazioni di edifici scolastici, in risparmio energetico, in formazione, in docenti, i fondi europei che abbiamo a disposizione con il Recovery Fund, come chiesto anche da Chiara Saraceno e dalle associazioni ricevute recentemente dal Presidente del Consiglio?

Adesso che lo stato d’emergenza è stato procrastinato, Ocse, nelle sue oltre 60 pagine di documento, consiglierebbe di ampliare la prospettiva di collaborazione Stato-cittadini aprendo anche alle famiglie il “dibattito interno alla scuola” rendendo partecipi gli studenti e i genitori delle scelte di ogni singolo ateneo o distretto scolastico.

La fiducia è necessaria anche per introdurre oggetti presentati come innovazioni, che in realtà rispondono a delle logiche “antiche” e rispondenti più a logiche di mercato che a reali necessità. L’introduzione di nuovi strumenti potrebbe portare innovazione se questi strumenti potessero essere discussi. Non tutto, di per sé, è negativo, ma è percepito come negativo perché non è parte di un processo di condivisione, è mal condivisa, o non condivisa.

Forse, vista la questione femminile che oggi vogliamo affrontare, occorrerebbe avere una prospettiva femminista anche nell’affrontare le questioni “non” di genere. La condivisione alla base delle scelte future farebbe bene, a tutti, così come un dibattito pubblico aperto, sulla scuola.

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