Facebook Workplace – un programma di interazione in contesto lavorativo, simile a Slack Connect – è stato presentato al mondo da pochi giorni, ma è già stato travolto dallo scandalo. Il nuovo giocattolo di Mark Zuckerberg pare abbia un singolare difetto: consente agli amministratori di censurare la parola “sindacalizzare”. Comportamento alquanto strano da parte di un’azienda che ha sempre sostenuto di voler difendere a tutti i costi la libertà di espressione, al punto da non voler censurare neanche il multi-censurato Trump, noto diffusore di fake news. Evidentemente, la libertà dei lavoratori è ritenuta sacrificabile.

È esattamente ciò che ha contestato a Facebook la più grande federazione sindacale degli Stati Uniti, Afl-Cio (American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations), aggiungendo che l’azienda “si dichiara campione della libertà di parola, nel mentre marketizza se stessa come strumento di repressione dei diritti dei lavoratori”. Per tale ragione ha chiesto l’immediato ritiro del nuovo programma e le scuse dell’azienda ai lavoratori, oltre che di spiegare come ha osato realizzare un simile programma.

Anche la Confederazione dei sindacati europei (Etuc-European Trade Union Confederation) ha condannato la condotta antisindacale di Facebook, aggiungendo che “le attività discriminatorie nei confronti dei sindacati, dei loro rappresentanti e dei lavoratori sono assolutamente proibite dalle norme internazionali ed europee sui diritti umani”.

Alcuni portavoce dell’azienda hanno cercato di smorzare i toni scusandosi per la “scelta poco accurata” delle parole da inserire nella lista delle parole censurabili, coprendosi però di ridicolo, perché come ha spiegato Christy Hoffman, segretario generale di Uni Global Union (Federazione globale dei sindacati), Facebook “considera perfettamente normale e accettabile la distruzione dei sindacati, tanto da inserirla con nonchalance nei documenti interni”.

Facebook non è un’eccezione. Sono anni che le grandi aziende tecnologiche, quelle che attualmente guidano la ristrutturazione digitale dell’economia globale, sperimentano e usano sofisticati strumenti di censura e sorveglianza tecnologica per combattere i sindacati e le lotte dei lavoratori.

Risale all’ottobre 2019 il primo scandalo che ha coinvolto Google per aver costruito un programma di spionaggio, spacciato per estensione di Chrome e impossibile da disinstallare, al fine di sorvegliare le conversazioni dei dipendenti e prevenire la loro sindacalizazione. A questo sono succeduti, nel mese di novembre, altri scandali simili, che hanno portato al licenziamento di dipendenti che parlavano di diritti ai loro colleghi.

E che dire di Amazon, la cui avversione ai sindacati è globalmente nota? Già nel 2000 usava dei siti web come arma per contrastare la lotta sindacale dei lavoratori di una call centre a Seattle. Quando nel 2017 acquistò la catena di negozi alimentari Whole Foods, Amazon costruì un programma interattivo definito “heat maps” (mappe termiche) per calcolare la “vulnerabilità sindacale” dei negozi. Tale “vulnerabilità” veniva misurata combinando una serie di dati esterni (percentuale di popolazione al di sotto della soglia di povertà, tasso di disoccupazione) e interni al negozio (il numero di denunce presentate dai lavoratori, il loro profilo razziale e politico, etc.).

Negli ultimi anni ci è stato detto, in modo ossessivo, che lavorare in un ambiente Tech è un sogno, che le aziende del digitale sono il regno delle libertà, dove non esistono controlli, dove svaniscono barriere e gerarchie, perché non esistono più i padroni e si è soltanto dei “collaboratori”. Si scopre, invece, essere una volgare menzogna, che in fondo i padroni restano padroni, esattamente come quelli delle manifatture del 1800, anche se vestono cool, maneggiano dispositivi futuristici e parlano da visionari.

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