La ristrutturazione digitale dell’economia, avviatasi negli anni Ottanta del secolo scorso, ha conosciuto una tremenda accelerazione negli ultimi 12-13 anni. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il valore della sharing economy arriverà a 335 miliardi di dollari nel 2025. La produzione mondiale di stampanti 3D è più che raddoppiata. Il valore globale dell’e-commerce ha raggiunto i 29 trilioni di dollari nel 2017. Il traffico internet nel 2019 ha superato di 66 volte quello del 2005 ed entro il 2022 il traffico globale IP (Internet Protocol) raggiungerà i 150.700 gb al secondo.

Questa ristrutturazione è guidata da alcune grandi aziende tecnologiche – Microsoft, Apple, Amazon, Tencent, Alibaba, Facebook, Google e Zoom – che hanno registrato una incredibile crescita esponenziale nell’ultimo decennio. Apple e Microsoft hanno registrato una capitalizzazione azionaria di 1,4 trilioni di dollari nel 2020, seguite da Amazon con 1,04 trilioni di dollari, Alphabet (la società madre di Google) con 1,03 trilioni di dollari, Samsung con 983 miliardi di dollari, Facebook con 604 trilioni di dollari e Alibaba e Tencent, rispettivamente con 600 e 500 miliardi di dollari.

Per dare un’idea della rapidità con cui questi colossi della tecnologia sono cresciuti, basterebbe osservare come la capitalizzazione azionaria di Google sia passata da meno di 200 miliardi di dollari alla fine del 2008 a oltre 1.000 miliardi di dollari all’inizio del 2020: un aumento del 500%.

In questa grande corsa di investimenti nell’economia digitale le banche non sono rimaste a guardare. Al contrario, sono diventate il secondo pilastro del processo di ristrutturazione in atto, investendo in particolare nel cloud computing e nell’intelligenza artificiale. Il terzo pilastro è rappresentato dall’industria militare e della sicurezza.

Nel corso degli anni, ad esempio, Google ha ospitato i dati della Cia, ha indicizzato i database della National Security Agency, ha costruito robot militari, ha lanciato un satellite spia con il Pentagono e ha messo a disposizione della polizia la sua piattaforma di cloud computing. Anche Amazon, Facebook, Microsoft e altri lavorano a stretto contatto con l’industria militare e di sicurezza, al punto da rendere difficile stabilire un confine tra il settore militare e quello civile dell’economia.

L’altra faccia della scintillante ristrutturazione digitale dell’economia, di cui si parla poco, è caratterizzata da disoccupazione, sotto-occupazione, ultra-precarizzazione, compressione dei salari e aumento del tempo di lavoro. Non a caso, nella letteratura scientifica, il processo è stato definito “uberizzazione del lavoro”.

Un rapporto del National Bureau of Economic Research ha recentemente rilevato che per ogni nuovo robot introdotto si ha una perdita da 3 a 5,6 posti di lavoro. In un rapporto delle Nazioni Unite (2017) si stima che decine di milioni di posti di lavoro scompariranno nei prossimi anni a causa della digitalizzazione. Il rapporto stima, ad esempio, che oltre l’85% dei lavoratori del commercio al dettaglio in Indonesia e nelle Filippine è a rischio. Nel medesimo rapporto si spiega che la diffusione delle piattaforme di lavoro online avrà un impatto tremendo anche sulle condizioni lavorative, determinando una “corsa al ribasso delle condizioni di lavoro e una precarietà crescente”.

Altri rapporti dell’Oil hanno fornito le prove di questo peggioramento globale del lavoro. Nel 2011, l’Oil ha riferito che circa 1,53 miliardi di lavoratori in tutto il mondo si trovano in condizioni di lavoro “vulnerabili”. Otto anni dopo, nel 2019, l’Oil ha documentato come la maggioranza dei 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo sperimenti “una mancanza di benessere materiale, di sicurezza economica, di pari opportunità o di possibilità di sviluppo umano”.

Con l’intensificarsi della crisi economica post-pandemica, si moltiplicano gli studi che prevedono un forte aumento della disoccupazione in tutto il mondo, la quale non sarà riassorbita dal mercato del lavoro. Un recente studio dell’Università di Chicago stima che soltanto negli Stati Uniti il 42% dei disoccupati registrati durante il lockdown non rientrerà più nel mercato del lavoro.

Anche l’ultimo rapporto del Fmi parla di 300 milioni di posti di lavoro persi negli ultimi mesi, ma – come spesso capita nei documenti del Fmi – non annovera la ristrutturazione digitale dell’economia tra le cause dell’attuale e futura disoccupazione globale. Al massimo, si parla di “technology tensions” da affrontare, senza specificare altro.

Ammettere però, seppur sottovoce, l’esistenza delle “technology tensions” rivela la forte contraddizione in corso e, soprattutto, che il metabolismo dell’attuale sistema economico (anche digitalizzato) è radicalmente antisociale: l’endemico bisogno di crescita/accumulazione, che è alla base dell’attuale ristrutturazione digitale, non è in grado di contemplare i bisogni del lavoro e dei lavoratori. Per questi, la mano invisibile del mercato rappresenta soltanto ciò che li spinge nel baratro.

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