Ci siamo ricascati. Dagli Stati Uniti alla Turchia, dalla Spagna a Milano, dalla Germania all’Inghilterra è ripartito il gioco “Riscriviamo la storia”, aggiungendo, se possibile, ulteriori prove di cattiveria e ignoranza alla già lunghissima sequela dei misfatti di cui è fatta la storia dell’umanità. Il tentativo, la speranza sono sempre gli stessi: distruggere i segni del passato per non doverne meditare le conseguenze, per continuare se possibile, in altro modo, con altre facce a compiere gli stessi crimini.

Personalmente penso di far parte di quella categoria di persone che non amano le statue e i mausolei e che pensano che sia meglio innalzarne meno che si può. Le celebrazioni, mi sembra, sarebbero da lasciare ai fatti stessi, non alla loro esaltazione. I monumenti, il più delle volte, sono l’espressione di una gloria e di un consenso molto gracile e temporaneo, da qualsiasi parti li si guardi.

Però, una volta eretti, le statue, i grandiosi palazzi, una volta dedicate le piazze e le strade, entrano a far parte della nostra storia, sono essi stessi la storia, il segno di un’epoca, del potere e del nostro consenso al potere. Non si possono toccare, devono restare lì, a memoria della caducità della grandezza umana. Non certo per ricordarci glorie che forse non ci furono mai, ma per testimoniare la nostra propensione all’errore, alla genuflessione, alla complicità. Per rammentarci i nostri difetti, i nostri crimini, le nostre debolezze. Ricordi per non ripetere, non per onorare. Come Auschwitz, i monumenti sono ricordi integrali, intonano l’Allelujah e il Miserere.

Inesorabilmente, accade che siano i peggiori a voler rovesciare i monumenti, che siano i nuovi dittatori a voler cancellare la memoria di quanti li precedettero. Sono gli ultimi criminali che desiderano eliminare il ricordo di quelli del passato. E in effetti, il delitto peggiore è proprio toccare la storia, forzare la memoria, cercare di guidare il ricordo delle donne e degli uomini, di volta in volta secondo letture diverse, solo “casualmente” finalizzate alla celebrazione, e agli interessi dell’oggi.

La lista dei simboli abbattuti è lunga solo quanto quella delle menzogne della storia. Da Napoleone a Stalin, da Colombo a Thomas Jefferson, da Mussolini a Mao, da Franco a Montanelli, da Thomas Jefferson a Teddy Roosvelt, da Savonarola a Lutero, da Giordano Bruno fino a Gaetano Marzotto, il campionario delle sciocchezze “iconoclaste” senza senso, misto di ignoranza, odio e dolori patiti è infinito.

Proprio in questi giorni ci sta provando anche il presidente turco Erdogan e non ci sarebbe molto da stupirsi, se non fosse che in questo caso la menzogna è veramente troppo grossa, l’intervento è troppo invasivo e stravolgente per rientrare nella routine delle menzogne di una dittatura. Infatti, il suo tentativo che formalmente sarà autorizzato tra pochi giorni di trasformare la Basilica della Divina Sapienza (Agìa Sof`ia = aghia sophia) in una moschea islamica va contro duemila anni di storia.

Il presidente turco, come si dice, ha sparato al bersaglio grosso, ma alla fine nei fatti potrà cambiare di poco la realtà di uno dei più grandi monumenti della cristianità, del simbolo della unicità di quella parte dell’Asia Minore nella storia mondiale. Oggi Santa Sofia è già è un museo, in segno di conciliazione, e da tempo, almeno in parte, era riservata per le preghiere dei fedeli dell’Islam. E alla fine, a dispetto di Erdogan, Haghia Sophia resterà nei secoli la Basilica della Seconda Roma, il tempio che Carlo Magno prese ad esempio per edificare la sua Cattedrale ad Aquisgrana. La storia non si cancella, anche se un leader ordina e la maggioranza della popolazione lo vuole.

Il male accade però grazie ai complici. Non tutti gli storici sono come Huizinga, che non piegò il suo genio all’invasore e fini in campo di concentramento. Oggi purtroppo la conoscenza dei fatti storici è quanto mai scarsa, come è scarsa la propensione alla moralità cui solo la storia può dare fondamento. La storia è stata abbreviata in ideologia, speculazione astratta, funzionale a questo o quell’idea alla moda.

Fortunatamente la vera storia è altrove. Non nei libri degli storici, che non difendono la storia, e spesso difendono solo se stessi. E anche se i popoli non percepiscono il danno alle proprie esistenze che deriva dal violentare, mistificare, limitare, alterare i fatti storici, un conto sono i fatti storici, un conto sono le ricostruzioni storiche, che sono pure astrazioni. La Storia resta, più dei monumenti che si tenta di abbattere. Le interpretazioni mutano e si succedono, a volte aiutano a capire, ma la realtà non cambia in forza di queste ultime.

La presunzione fatale, come la definì qualcuno, il contraddittorio e irrazionale ergerci a giudici del passato (e del futuro) infastidisce, ma non cancella. La storia pesante, quella che resta in ogni caso, è quella dei fatti (in gran parte inesplicabili) e quella dei contemporanei ai fatti. Il resto è un puro gioco in continuo cambiamento.

Impareremo che la Storia non è consolatoria, non è né edificante né magistra. La storia è complessa, è il nostro inconsapevole, ineliminabile, pesante cilicio, le nostre piaghe, la nostra sofferenza, la nostra croce che preferiremmo non portare, la prova provata della nostra miseria. Per questo non piace alle dittature, agli appassionati del potere, a tutti coloro che nell’illusione vorrebbero spingere le masse a portare acqua al loro mulino. A distruggere monumenti, per dare spazio ad altri di nuovi.

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