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di Monica Valendino

La politica italiana continua a vivere del passato. Il virus che oltre ai danni sanitari dovrebbe portare innovazione e nuove idee, sta invece fossilizzando ancora di più i vecchi metodi che da tempo immemore strozzano il Paese: si parla tanto, ma alla fine tutto ruota attorno al debito pubblico (che fra 10 anni potrebbe divenire un macigno insopportabile), di qualche opera pubblica inutile (Tav, Tap, ma anche il famigerato ponte sullo stretto), di pace fiscale, eccetera.

Il fondo salva stati (Mes) dalla maggior parte del Parlamento viene visto come il diavolo. Eppure di diabolico c’è solo il ripiego a utilizzarlo. Ma perché tanto timore? Lo scorso aprile è stato raggiunto un accordo dell’Eurogruppo sul Pandemic Crisis Support, con un credito che per l’Italia è di circa 40 miliardi di euro (cifra proporzionale al Pil). Il tasso d’interesse sarebbe negativo nel caso di una scadenza a sette anni e dello 0,08% nel caso di una scadenza a dieci anni, con un risparmio di circa 5 miliardi alla scadenza.

Unico vincolo l’utilizzo di tale fondo per la sanità e per opere pubbliche ad essa collegate (quindi vietata la distribuzione a enti privati), oltre che una deroga per la messa in sicurezza di aziende che riprendono la produzione e per l’edilizia scolastica, proprio adesso che le linee guida impongono classi più contenute. Eppure c’è qualcuno che vuole far vedere fregature dietro a tutto questo, facendo passare il messaggio inventato che l’Italia potrebbe finire come la Grecia qualche anno fa.

Nulla di vero, ovviamente; l’unica paura è quella dell’Unione Europea che evidentemente conosce i vizi nostrani e impone vincoli certi all’utilizzo del credito. Lo stesso discorso che varrà del resto per il Recovery fund, dove molti stati fiutano sperperi da parte nostra con i soldi dei loro cittadini (che cattivoni!).

Ma attenzione: c’è un’altra parola impronunciabile nel parlamento italiano e si tratta della “patrimoniale”. Eppure il rapporto Time to care dell’Oxfam di inizio anno non lascia dubbi: nel 2019 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo è di circa 8.760 miliardi di euro) vede il 20% più ricco degli italiani detenere il 72% del malloppo, il successivo 20% controllare il 15,6%, lasciando al 60% più povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale, le briciole.

In parole povere se sommassimo le ricchezze dei sei milioni di italiani più poveri, la cifra che otterremmo non raggiungerebbe il patrimonio posseduto dai tre miliardari più ricchi del paese. In parole ancora più povere (mai aggettivo è più azzeccato), i 100 più ricchi d’Italia detengono la quasi totalità della ricchezza. Eppure parlare di patrimoniale per questi signori appare come un insulto. Anche qui qualcuno ha fatto passare l’idea che i conti correnti di tutti (anche quelli dei pensionati) possano essere intaccati. Nulla di vero anche qui ovviamente, con “patrimoniale” si parla di imporre un contributo di solidarietà a chi detiene la maggior parte dei beni, che siano persone o fondi.

Si tratterebbe di poter avere a fine anno una somma tale da poter gestire almeno un quarto della manovra finanziaria. Ma le confederazioni associate (confindustria e compagnia) già sussultano sulla sedia.

Peccato che dopo i vari regali di stato ricevuti, dopo che nel 2000 con l’avvento dell’Euro, fu grazie alle loro impennate dei prezzi che iniziò la crisi, ora storcono il naso se una piccola parte del patrimonio dei loro associati possa venire utilizzato per il rilancio della nazione. Ma mentre le soluzioni logiche e anche etiche esistono, l’Italia va al patibolo conseguendo debito su debito. Qualcuno dovrebbe spiegare i rischi di questo agli italiani.

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