In Egitto non passa giorno senza che le cronache riportino il blitz in casa di una giornalista, il fermo di un avvocato in mezzo alla strada o l’arresto in diretta nell’ufficio di un attivista. L’ultimo episodio risale al primo pomeriggio di mercoledì, quando una vera e propria task-force composta da otto agenti della sezione informatica della polizia si sono presentati nella sede del sito di notizie al-Manassa, al Cairo. Con un pretesto hanno sequestrato due computer e chiesto al caporedattore, Nora Younis, di seguirli al quartier generale della base tecnica per analizzare il contenuto dei pc. Lo scopo era verificare se i programmi installati del sistema operativo open source Ubuntu fossero coperti da regolare licenza: “Una volta usciti, invece, la macchina con Nora all’interno non si è diretta verso la sede della polizia informatica, nel dipartimento di Giza, ma alla stazione di polizia di Maadi”, ha raccontato Sayyd Turki, l’editore del sito web, uno degli oltre 500 domini oscurati dal regime negli ultimi anni. Younis è stata rilasciata solo nella serata di giovedì, dopo più di un giorno di fermo, con una multa da 10 mila sterline egiziane, equivalente a quasi 550 euro

Al-Manassa è stato dichiarato fuorilegge nel 2017 e, come altri, pur privo di visibilità e accesso diretti, ha continuato a svolgere la sua attività attraverso piattaforme online dedicate e capaci di bypassare l’embargo imposto dal governo del Cairo. In mattinata la giornalista è comparsa davanti al pubblico ministero per rispondere dell’accusa di gestire un sito di notizie senza licenza operativa. In Egitto, le testate giornalistiche devono essere accreditate per poter svolgere la propria funzione, ma non a tutte viene rilasciata la licenza per strani cavilli o imposizioni palesi. Chiaro pretesto per evitare media scomodi. I permessi rilasciati con estrema difficoltà costringono gli editori a percorsi alternativi per rendere accessibili i propri contenuti.

Nora Younis è una giornalista molto esperta e stimata in Egitto, tanto da aver collaborato a lungo con il Washington Post. Per il grande quotidiano americano si è occupata di svariati argomenti, in particolare l’aspetto dei diritti umani calpestati nel Paese nel passaggio dal periodo pre-rivoluzionario ai giorni nostri. Nel 2008 le è stato assegnato il riconoscimento di Human Rights Defender. In un’intervista all’International Peace Institute del marzo 2012, Younis denunciava come pezzi del regime di Hosni Mubarak fossero rimasti al loro posto anche durante il periodo della leadership della Fratellanza Musulmana.

In quegli anni la giornalista, e poi blogger, lavorava per il principale quotidiano egiziano, al-Masry al-Youm, oggi filogovernativo, e forse anche per questo, nel 2015, ha deciso di fondare il sito web al-Manassa. Insomma un pedigree sufficiente per spingere le autorità egiziane a liberarsi di lei per qualche tempo. Magari rinchiudendola nella sezione femminile del carcere di Qanater, a nord-ovest del Cairo, dove si trovano in stato detentivo decine di attiviste egiziane, tra cui, dall’altro giorno, anche Sanaa Seif. La più giovane della famiglia Seif, anti-regime da generazioni, è stata prelevata martedì pomeriggio all’esterno del palazzo che ospita la Procura generale, a New Cairo, mentre era in compagnia della madre Leila e della sorella Mona.

Tutte e tre, la mattina precedente, sono state aggredite da un gruppo di sconosciute mentre si trovavano davanti alla prigione di Tora dove, da nove mesi, è rinchiuso il figlio e fratello Alaa Abdel Fattah, tra le anime leader della protesta di piazza Tahrir nel gennaio 2011. Una protesta costante, quella delle tre donne, tra presidi, bivacchi e appelli per avere notizie sulle condizioni di Alaa (che tra marzo e maggio ha portato avanti uno sciopero della fame) e consegnargli lettere e oggetti personali.

L’aggressione alle tre donne, tra calci, bastonate e il furto di tutti gli effetti personali, è avvenuta alla presenza di decine di guardie e agenti di polizia che non hanno mosso un dito per intervenire in loro soccorso. Il giorno dopo Leila, Mona e Sanaa Seif, accompagnate dal loro avvocato, hanno deciso di presentare un esposto per fare chiarezza sull’inquietante episodio e la risposta dello Stato si è concretizzata con l’arresto della sorella più piccola.

La procura si è affrettata a precisare che la decisione del provvedimento nei confronti di Sanaa Seif era stata presa da tempo a causa dei suoi post sui social. La Seif aveva denunciato la deriva che l’emergenza pandemica da coronavirus sta assumendo in Egitto (oltre 60mila contagi ufficiali) e soprattutto criticava le autorità per aver lasciato soli medici e sanitari. Ad oggi sono quasi 100 i professionisti in prima linea deceduti a causa del Covid-19. A proposito del blitz di martedì davanti alla Procura, Leila Seif, madre di Sanaa ha twittato: “È chiaro che avrebbero potuto arrestare Sanaa in qualsiasi momento, ma lo scopo è stato quello di creare una scena horror a cui il Procuratore ha preso parte”.

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