di Roberto Iannuzzi*

Tra le aree del mondo maggiormente colpite dal coronavirus per ora non figura il Medio Oriente. L’epidemia ha in realtà interessato tutti i paesi della regione, ma con conseguenze apparentemente meno devastanti che altrove. I contraccolpi economici e geopolitici potrebbero tuttavia rivelarsi pesanti.

Complici le statistiche inaffidabili fornite da molti governi, è difficile quantificare l’impatto sanitario del Covid-19 su questi paesi. L’area più affetta è certamente quella del Golfo Persico, con in testa l’Iran, una delle prime nazioni al mondo a essere investite in pieno dalla pandemia. Anche l’Arabia Saudita e le vicine monarchie della penisola araba hanno registrato decine di migliaia di casi. Toccando paesi come Turchia ed Egitto, l’infezione si è estesa a tutto il Nord Africa fino al Marocco.

Così come accadde con la crisi del 2008, il Medio Oriente è destinato ad avvertire la recessione globale provocata dalla pandemia in termini di calo delle esportazioni, riduzione delle rimesse dall’estero e sofferenze del settore turistico.

Le restrizioni alla mobilità e l’incepparsi delle catene di fornitura stanno però provocando danni ulteriori, esacerbando le pregresse crisi alimentari nella regione e creandone di nuove, soprattutto nelle zone di guerra che vanno dall’Afghanistan al Sudan, passando per Libia, Siria e Yemen. A ciò va aggiunto il crollo del greggio, provocato dal brusco rallentamento della produzione industriale globale e aggravato da una guerra commerciale fra Russia e Arabia Saudita, due fra i maggiori esportatori di petrolio.

L’improvviso calo degli introiti petroliferi non solo obbliga i paesi produttori del Golfo a fare i conti ancora una volta con il loro modello di sviluppo esclusivamente incentrato sull’oro nero, ma altera le dinamiche economiche regionali. Paesi come Giordania, Libano, Egitto, Marocco e Tunisia, che avevano tradizionalmente beneficiato dei generosi finanziamenti provenienti dal Golfo, dovranno cercare altrove un sostegno alle loro fragili economie.

In questi paesi, il fuoco che fece scoppiare le rivolte del 2011 continua a covare sotto la cenere, sfociando in proteste che hanno ripetutamente interessato Algeria, Giordania, Iraq e Libano. Al pari di altri paesi investiti dal coronavirus, i governi autocratici della regione hanno adottato misure stringenti tradottesi in una forte limitazione delle libertà civili, colpendo però in particolare attivisti, giornalisti ed esponenti dell’opposizione.

Nel frattempo, le guerre scoppiate a seguito delle rivolte del 2011 hanno mutato profondamente le dinamiche geopolitiche regionali, senza tuttavia produrre assetti stabili e duraturi, ma anzi aggravando le tensioni e i rischi di estensione del conflitto.

La pandemia sta accentuando la crisi della leadership statunitense nella regione. Mentre l’amministrazione Trump soffia sul fuoco del confronto Usa-Cina, il ruolo americano in Medio Oriente è sempre meno incisivo, lasciando spazio a partner regionali come Israele, Turchia ed Emirati Arabi Uniti (Eau). Tali attori, tuttavia, seguono sempre più apertamente i propri interessi (spesso contrastanti) a scapito di quelli statunitensi.

Due dinamiche regionali rimangono predominanti: quella del conflitto fra le potenze sunnite, che vede Turchia e Qatar scontrarsi con Eau ed Arabia Saudita in teatri che vanno dal Corno d’Africa alla Libia; e quella che contrappone Israele, monarchie del Golfo e Stati Uniti all’Iran, con ripercussioni che vanno dal Golfo Persico alla Palestina.

L’intero Mediterraneo orientale (regione di enorme interesse strategico per l’Italia) sta diventando un’area contesa nella quale si moltiplicano le linee di faglia, dalle tensioni turco-greche alla competizione per i giacimenti di gas, alle dinamiche belliche delle crisi siriana e libica. Quest’ultima, sempre più dominata dal conflitto intra-sunnita, è ormai divenuta propaggine occidentale della gigantesca area di instabilità mediorientale.

L’amministrazione Trump, alle prese con la crisi economica prodotta dal coronavirus e con l’ossessione cinese, sembra al momento riservare scarso interesse a questo scacchiere. L’unico obiettivo a cui Washington tuttora punta con determinazione è il rovesciamento del regime iraniano, ma attraverso lo strumento delle sanzioni piuttosto che con mezzi militari. Il corpo a corpo con Teheran e i suoi alleati, però, potrebbe infine porre Trump di fronte a un bivio: farsi trascinare nella follia di un conflitto armato con l’Iran, o ritirarsi definitivamente da Iraq e Siria.

Un’ultima variabile non va sottovalutata: la possibilità che la competizione Usa-Cina, che attualmente sta distogliendo l’attenzione americana dal Medio Oriente, finisca per trasformare la regione in uno dei teatri di questo scontro. In questa direzione spingono due elementi: 1) le risorse energetiche, i porti e le rotte mediorientali navali e terrestri sono essenziali per la nuova Via della seta cinese; 2) un numero crescente di paesi dell’area potrebbe rivolgersi alla Cina per ottenere quegli aiuti che non riceve più dalle monarchie del Golfo e dall’Occidente.

Al confronto fra Washington e Mosca, a cui abbiamo assistito negli ultimi anni in Medio Oriente, potrebbe dunque sommarsi quello fra Washington e Pechino.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017)

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