Ogni giorno si vendono e comprano per davvero un’ottantina di milioni di barili di petrolio. Me nelle stesse 24 ore, sui mercati, ne passano virtualmente di mano circa un miliardo. E’ un trucco reso possibile dai derivati, ossia contratti in cui ci si accorda per una consegna futura ad un prezzo prestabilito. Se nel frattempo il valore scende sotto questo prezzo guadagna chi vende, viceversa guadagna chi compra. In realtà però questi contratti non si concludono mai con la consegna vera e propria. Si paga semplicemente la differenza, oppure si effettua quello che in gergo si chiama rollover. Vale a dire che il contratto che sta per scadere viene rinnovato con uno con scadenza più lontana.

Questo è il punto di partenza per capire quello che sta accadendo sui mercati e perché il petrolio abbia un prezzo sotto lo zero. Ieri, chi voleva disfarsi di un contratto in scadenza non ha trovato nessuno che volesse comprarlo. A questo punto il possessore del contratto, avrebbe dovuto ricevere per davvero tutto il petrolio acquistato con il derivato. Generalmente però chi fa queste operazioni non gestisce materialmente barili di petrolio e non ha gli spazi per immagazzinarlo. Si possono affittare, ma in questo momento c’è un grosso “ma”. I depositi di petrolio sono tutti pieni, a causa del crollo della domanda provocato dal blocco delle attività produttive. Una situazione particolarmente accentuata negli Stati Uniti, dove il deposito di Cushing in Oklahoma, noto come l’incrocio degli oleodotti mondiali, è ormai stracolomo.

I possessori di contratti futures sul petrolio si sono così trovati in una specie di trappola per topi. Ci sono entrati ma non possono più uscirne senza perdere soldi. Due le opzioni: o accettano i barili pagando costi altissimi per tenerli fermi finché qualcuno non li compra, oppure pagano chi dovrebbe consegnarglieli per tenerseli. Si paga per non ricevere quello che si è già acquistato e il prezzo diventa negativo. Il fenomeno ha sinora interessato i contratti con scadenza maggio e consegna in questi giorni ma ora si sta estendendo anche a quelli di giugno. Per ora il problema è più americano che europeo. Il Brent, greggio estratto nel mare del Nord che funge da riferimento per il mercato europeo, quota ancora 21 dollari al barile e il differenziale con il petrolio WTI statunitense è ai massimi di sempre.

Questa vicenda, più che altro tecnica, è però solo la punta dell’iceberg. Si è arrivati a questo punto perché da tempo esiste un eccesso di offerta di petrolio rispetto alla domanda. Era così già prima del Covid ma, naturalmente, l’epidemia ha dato al problema dimensioni impensabili e in brevissimo tempo. Dietro le quinte dei listini, infuria una battaglia tra Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti. Riyadh sta cercando di spingere Mosca fuori mercato, dopo che in febbraio i russi hanno rifiutato un accordo per tagliare la produzione e sostenere i prezzi. L’Arabia ha il vantaggio di poter produrre petrolio di alta qualità con bassi costi estrattivi e industriali. Il paese riesce a guadagnare anche con un barile poco sopra i 20 dollari, mentre per la Russia l’asticella si colloca intorno ai 40/50 dollari. Dolori in arrivo insomma per tutti gli Stati che dipendono fortemente dagli introiti del greggio per finanziare la loro spesa pubblica.

Le dinamiche di prezzo interessano anche gli USA, che sono esportatori netti solo sulla carta. E’ vero che esportano più petrolio di quanto non importano ma devono comunque importare perché il loro petrolio non è di qualità particolarmente alta e deve quindi essere “mischiato” con greggi più nobili prima della raffinazione. I fiumi di greggio riversati sul mercato dallo sviluppo dello shale oil statunitense (una tecnica estrattiva che permette di “succhiare” petrolio da rocce che lo contengono) sono uno dei fattori che ha determinato l’eccesso strutturale dell’offerta.

Quando la marea nera si ritira, trascina con se tutto quanto ci galleggia sopra. A cominciare dalle compagnie petrolifere, che però hanno le spalle abbastanza larghe per reggere. In bilico sono invece tutte quelle piccole società dello shale oil statunitense proliferate in questi anni. Imprese fortemente indebitate, che riescono a far quadrare i conti finché il petrolio si trova intorno ai 40 dollari. L’abbondanza di liquidità sul mercato aiuta queste aziende a restare in vita, ma presto potrebbe iniziare la serie dei default. Non è un caso che ieri tutte le principali banche del Texas, esposte verso questo settore, abbiano subito pesanti cali: la Texas Capital Bank di Dallas ha persoil 60%, Comerica il 58%, Prosperity Bank di Houston il 28%.

Per i consumatori invece questa situazione può portare alcuni, limitati, vantaggi. Il primo è naturalmente il calo dei prezzi di benzina e gasolio. Ma non aspettiamoci meraviglie. Il prezzo della materia prima incide infatti appena per il 15-20% del prezzo finale. Anche se il petrolio costasse zero (e in Europa non è così) il risparmio sui poco più di 1,4 euro che costa un litro di benzina sarebbe nell’ordine di 15/20 centesimi. Il resto di quello che paghiamo al distributore finisce infatti in tasse (il 69% del prezzo) e in costi di raffinazione, trasporto e distribuzione. Un beneficio dovrebbe però farsi sentire presto anche su bollette di luce e soprattutto gas. I prezzi del metano sono infatti da sempre collegati a quelli del greggio e la produzione di elettricità italiana deriva per circa la metà da centrali a gas.

TRUMP POWER

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