Il caso di George Floyd domina la cronaca degli Stati Uniti. L’impressione è di trovarsi davanti a un momento storico: le rivolte razziali più estese, drammatiche, importanti in oltre mezzo secolo. La nuova crisi ha improvvisamente relegato in secondo piano l’emergenza coronavirus, che però non si ferma. Gli Stati Uniti hanno infatti oltrepassato la soglia delle 110mila vittime per Covid-19. “Più del totale dei soldati morti nelle guerre di Corea, del Vietnam, dell’Afghanistan e dell’Iraq”, fanno notare molti media. Il numero dei morti è pari a quelli provocati dall’influenza del 1968 e vicino ai 116mila dell’epidemia del 1957-1958. Il Covid-19 si avvia a diventare quindi la pandemia più letale dai tempi della spagnola del 1918, che ne Paese fece 675mila morti. Mentre si segue l’evolvere della malattia – per esempio l’aumento di casi nelle zone rurali – si valutano anche i costi sociali. Tra questi, le carenze alimentari che in tempi di coronavirus toccano settori sempre più ampi di popolazione, soprattutto i bambini.

L’evoluzione della pandemia – La diffusione del contagio non si ferma e a oggi le infezioni sono quasi due milioni. Negli ultimi sette giorni 19 Stati su 50 hanno una media di nuovi casi superiore a quella della settimana precedente e le autorità temono che l’ondata di proteste per la morte di George Floyd possa innescare una seconda ondata. Anche negli Stati Uniti, come altrove, ci sono problemi nei conteggi, nel numero di tamponi, nei diversi criteri seguiti da Stato a Stato. Ma – dopo l’aumento costante tra marzo e aprile – i casi mostrano una tendenziale riduzione a partire da inizi maggio. Oggi circa il 5,4 per cento dei tamponi realizzati sono positivi, contro il 20 per cento di un mese fa.

L’immagine su base nazionale non rende però la varietà e complessità delle situazioni locali. Ci sono infatti Stati in cui il numero dei contagi è in salita. Tra questi, Alabama, Arkansas, California, Florida, Mississippi, North Carolina, Tennessee, Virginia e Wisconsin. In discesa invece i numeri in Colorado, Connecticut, Kentucky, Massachusetts, New Jersey, Pennsylvania, Texas e Washington. Tra le città, migliora la situazione a New York, mentre altre aree urbane – Chicago, Los Angeles, Washington D.C. – mostrano un aumento nei contagi.

Non è sempre facile capire come si muove il virus e quali siano le misure più efficaci da prendere. La contea di Los Angeles, per esempio, sta segnalando un aumento di infezioni dopo aver riaperto buona parte delle sue attività: chiese, negozi, drive-in. “Ci sono rischi per una ripresa di diffusione del Covid-19”, avverte Sara Cody, funzionaria sanitaria nel nord della California. Eppure il Texas, che è stato uno dei primi Stati a riaprire attività commerciali e ricreative, il 1 maggio, mostra una discesa nelle infezioni. In altri casi, l’aumento sembra collegato a fatti specifici: una festa in piscina di studenti delle superiori, una riunione in chiesa, i lavoratori di un’industria di pollame che non ha rispettato le norme di sicurezza. Per questo molti medici e scienziati preferiscono ormai parlare non di un’unica epidemia, per tutto il territorio nazionale, ma di diverse epidemie.

Città e campagne – La pandemia negli Usa si è diffusa inizialmente in aree e contesti privilegiati. Crociere, viaggiatori internazionali in arrivo da Cina ed Europa, aree metropolitane – New York, Seattle, Boston, San Francisco – che sono tra le più ricche del Paese. Se il coronavirus è stato “cieco” quanto a censo e appartenenza etnica durante le prime settimane, da un certo punto in avanti è diventato una malattia “sociale”, che ha colpito in prevalenza i più poveri e i membri delle minoranze. In Wisconsin i neri, che rappresentano il 6 per cento della popolazione, sono stati il 40 per cento dei morti per Covid. In Louisiana gli afro-americani sono il 32 per cento dei residenti e il 60 per cento delle vittime. E la lista potrebbe continuare ancora. Il risultato è lo stesso ovunque. I membri delle minoranze, che sono spesso gli strati di popolazione più deboli economicamente, con lavori che hanno richiesto la presenza fisica, con condizioni sanitarie meno fortunate, sono quelli più colpiti da malattia e lutti.

C’è però un fenomeno nuovo, emerso nelle ultime settimane. E cioè la progressiva diffusione del virus nelle aree rurali – si è anche parlato del trasferimento del Covid-19 dagli Stati blu, quelli democratici, agli Stati rossi, repubblicani. Dalle industrie che processano la carne di maiale dell’Oklahoma Panhandle alle pianure del Colorado orientale ai piccoli villaggi agricoli dell’Indiana, dell’Ohio, del Michigan, dell’Iowa, il virus sta mostrando nuova forza e pericolosità. Sono aree del Centro e dell’Ovest con una popolazione complessiva di circa 60 milioni di persone, tendenzialmente più povere rispetto alle zone urbane, con una percentuale più alta di anziani, con una maggior diffusione di patologie come obesità e diabete, con una presenza importante di immigrati illegali che lavorano nell’agricoltura e nell’industria alimentare. Si tratta di comunità spesso isolate, al di fuori delle maggiori rotte turistiche e commerciali. Il virus ci ha messo un po’ ad arrivare ma ora appare in rapida diffusione, aiutato da un contesto umano e sociale che appare molto favorevole. “Non si propagherà in modo uniforme, ma ci saranno focolai che vengono e che vanno”, ha dichiarato Tara Smith, epidemiologa della Kent State University dell’Ohio.

La fame in tempi di pandemia – A partire da marzo e dai primi lockdown, è aumentato il numero di americani toccati dalla “food insecurity”. La cosa è particolarmente diffusa tra le donne single con minori a carico, che in questo periodo non hanno potuto usufruire delle mense scolastiche. Una ricerca di aprile dell’Hamilton Project di Brookings Institution mostra che il 40,9 per cento delle donne intervistate, con figli minori di 12 anni, dice di non avere cibo a sufficienza per nutrire i bambini. La percentuale era del 15,1 nel 2018. Quaranta milioni di nuovi disoccupati (un lavoratore su quattro), minor numero di ore lavorate, salari sempre più magri hanno inciso pesantemente sulle diete alimentari degli americani.

Due mesi fa il Congresso degli Stati Uniti ha creato un programma, “Pandemic-EBT” che permette di trasferire su una carta elettronica il valore dei pasti di cui gli studenti non hanno usufruito in tempi di chiusure scolastiche. Il piano non ha avuto gli effetti desiderati. Si è infatti rivelato molto difficile trasferire le liste scolastiche su sistemi computerizzati spesso obsoleti come quelli di molti Stati e contee, per poi emettere le carte elettroniche. Dei 30 milioni di ragazzi che si intendevano aiutare, solo il 15 per cento è stato raggiunto. Sono dunque rimaste in piedi altre iniziative. Il Dipartimento all’Agricoltura ha messo a disposizione degli Stati i suoi 15 programmi alimentari. Lo stesso Dipartimento progetta di inviare 5 milioni di pacchi alimentari alla settimana ai minori con problemi di scarso accesso al cibo. Ci sono zone del Paese, soprattutto nelle aree rurali più isolate, in cui le scuole hanno continuato a inviare beni alimentari a casa degli studenti più bisognosi. In alcuni grandi centri urbani – città come Los Angeles, New York, Baltimore – si è assistito invece a un fenomeno nuovo. Fuori delle mense scolastiche si sono formate file di adulti alla ricerca di qualcosa da mangiare.

(Nella foto di Associated Press la famiglia di Roberto, a Baltimora, con la moglie Janeth e la figlia Allison, 5 anni. Insieme a loro la sorella di Janeth, Arely, e i suoi figli Roberto, 5, Dora, 11, e Sirus, 14. Entrambe le famiglie hanno limitato a uno i pasti della giornata per risparmiare. Perdita di lavoro, barriere linguistiche, scarsa conoscenza del sistema di assistenza sociale oltre a un mancato accesso alle tecnologie può impedire alle famiglie di immigrati di ricevere aiuti alimentari. Da quando questa foto è stata scattata ad aprile, Roberto, Janeth e la sorella Arely sono risultati positivi a Covid-19)

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