Secondo una indagine di Ibge (Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística) nel 2011 circa 12 milioni di brasiliani vivevano nelle favelas metropolitane, afflitti da carenze croniche quali mancanza di acqua corrente e servizi pessimi. Questa cifra oggi va perlomeno raddoppiata, se consideriamo i grandi agglomerati urbani del Sud Est del paese, il più popolato (oltre 85 milioni) dove si concentrano metà delle famiglie che vivono in condizioni sub-umane di “housing”.

Sâo Paulo, 1538 favelas, e Rio de Janeiro sono in testa a questa poco encomiabile classifica. Rio sfoggia la prima e la terza favela più grande in assoluto: Rocinha con circa 70.000 abitanti sul podio più alto, e Rio das Pedras (55.000) medaglia di bronzo. Al secondo posto, Sol Nascente a Brasilia (Distrito Federal) con 57.000 circa, che tuttavia negli ultimi anni si è spalmata con baracche fatiscenti nella parte sottostante della capitale fino a sfiorare le 100.000 anime, scalzando praticamente Rocinha dalla prima posizione. Le cifre si fanno però mostruose, considerando anche gli insediamenti urbani e rurali del Nord Est e le baraccopoli fluviali dell’Amazzonia.

Pur non raggiungendo le dimensioni bibliche delle comunità sopraccitate, le condizioni di vita possono essere persino peggiori, se si pensa alle palafitte di Manaus, che durante la stagione delle piogge spesso sono inondate dall’acqua lurida, o ai tuguri con le pareti di fango rosso nel Brejo Paraibano di Alagoa Grande, fino alle atroci tendopoli di plastica erette nei pressi del centro storico di Maceió, capitale di Alagoas. Se consideriamo tutto ciò, in Brasile circa il 40% dei residenti vive ancora in queste condizioni.

Rio das Pedras è il regno de Escritório do Crime, i miliziani tagliagole al soldo dei politici – tra cui Flávio Bolsonaro – di cui abbiamo già narrato le gesta. Con perfetto contrasto brasileiro, poco distante dall’inferno luccica Barra da Tijuca, sobborgo balneare di lusso la cui frenetica attività neanche il Covid è riuscito a fermare. Qui aveva casa Ronaldo, o Fenômeno do futebol. La vicinanza con la favela in realtà fa comodo al ceto alto, che da lì può farsi arrivare cocaina e prostitute, specie adesso per allietare la quarantena.

Difatti il paradosso brasiliano in tempo di pandemia è che pur con scuole, negozi e fabbriche chiusi, quelli che hanno i soldi non rinunciano comunque a divertirsi, infischiandosene dei divieti: sale massaggi e bordelli funzionano a pieno ritmo, con feste sia nelle favelas che nei quartieri bene, e promiscuità a go-go. Soltanto il 43% rispetta l’isolamento, cosicché il numero dei casi impazzisce quotidianamente.

Niente fogne, siamo excluídos

In Brasile, oltre 100 milioni di persone non hanno accesso alla rete fognaria, né possono usufruire di acqua corrente. Il problema dello smaltimento dei liquami e del trattamento dell’acqua per il consumo umano affligge anche il ceto medio, non solamente gli excluídos nelle favelas. Insomma, l’acqua potabile dal rubinetto è un lusso riservato a poco più del 40% dei brasiliani. Una tara antica, che affligge soprattutto gli stati del Nord Est, laddove i serbatoi per uso domestico, di colore blu e nero, decorano i tetti di almeno il 70% delle case in Paraiba, Pernambuco, Ceará, Bahia ect.

La distribuzione del liquido vitale nelle comunità di periferia è pessima, e sovente molte rimangono senza, dovendo quindi immagazzinarla per tempo nei modi più disparati. L’acqua ferma dentro contenitori di fortuna, insieme agli scarichi a cielo aperto, formano un connubio letale che attira gli insetti, tra cui la famigerata zanzara Aedes Aegypti, portatrice dei virus Zika e della Dengue, che oltre a dolori articolari può sviluppare febbre emorragica e uccidere.

Lo scorso anno 754 persone ci hanno lasciato la pelle, un record superato solo nel 2015, quasi mille. Il dittero depone le uova nelle acque stagnanti e le larve con il caldo ci mettono poco a crescere e pungere. Questa specie è portatrice anche della febbre gialla, soprattutto in Amazzonia e Distrito Federal. E se Madre Natura in alcuni casi ha concesso agli uomini acqua potabile senza sborsare un real, sono proprio i loro simili a levargliela.

Le catastrofi ambientali in Minas Gerais del 2015 e 2019, relative ai crolli delle dighe di Mariana e Brumadinho, causarono la contaminazione dei fiumi, invasi dai fanghi tossici della multinazionale Vale, ammazzando pure 300 operai. Gli indigeni persero il loro patrimonio idrico senza alcuna compensazione, grazie alle bustarelle che Vale aveva distribuito a tutti i partiti prima dell’avvento di Bolsonaro. Il quale dal canto suo promise prima del voto allo zoccolo duro del suo elettorato (i latifondisti della soia e dei biocarburanti che mirano ai territori indios per le loro colture) che non avrebbe lasciato un metro quadrato in più alla demarcazione della terra dei nativi.

Dilma Rousseff aveva già ripreso opere scriteriate come la nuova diga di Belo Monte nello stato di Pará, all’insegna del cosiddetto sviluppo delle infrastrutture, facendo sloggiare centinaia di tribù solo per soddisfare la cupidigia degli impresari, mentre quest’anno i roghi che fanno terra bruciata per creare spazio alle colture di soia e canna da zucchero da cui si ricava l’etanolo per il carburante hanno incrementato la deforestazione del 171% rispetto al 2019. Negli ultimi 5 anni sono stati annientati 26.740 km2 di foresta pluviale.

A Manaus il coronavirus ha falciato la gente per carenza di strutture sanitarie, arrivando fino ai villaggi nella foresta, trasmesso dagli indios che lavoravano in città e ora tornano a casa. E come la storia insegna, le loro difese immunitarie sono più fragili delle nostre. Le ecatombi avvenute nel XVI secolo a causa di morbillo, vaiolo e influenza contratti dagli invasori portoghesi sono lì a ricordarcelo.

Ancora una volta in Brasile è la politica, avulsa dai reali bisogni del paese, che firma agli sfruttatori una cambiale in bianco a scapito dei diritti degli altri, in cambio del suo benessere basato sulla corruzione.

Photo © F.Bacchetta
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