Taiwan è al centro del dibattito internazionale sui rapporti tra l’Organizzazione mondiale della sanità e la Cina. In ballo ci sono il lungo scontro sull’autonomia di Taipei da Pechino, il veto cinese che impedisce al governo dell’isola asiatica di partecipare alle assemblee dell’agenzia Onu e le accuse rivolte all’Oms dai Paesi più critici, Stati Uniti in testa, di aver insabbiato le segnalazioni sulla trasmissione del virus da uomo a uomo che Taiwan avrebbe inviato all’organzzazione già da dicembre. Rapporti tanto privilegiati, quelli tra la Cina e l’Oms, da convincere i vertici dell’organizzazione a nascondere, continuano i critici, gli errori e i ritardi del Partito Comunista Cinese nel diffondere informazioni sul virus. Una strumentalizzazione politica della pandemia volta a permettere un ritorno di Taiwan nell’organizzazione, rispondono invece gli uomini del presidente Xi Jinping, e destabilizzare il gigante asiatico rinfocolando la guerra tra Pechino e Taipei sull’autonomia.

Lo scontro, quello pubblico, torna prepotentemente a metà aprile. Pochi giorni prima, il direttore generale dell’organizzazione, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha accusato Taiwan di averlo più volte definito “negro”. Un’uscita che tradisce la tensione all’interno dell’Agenzia Onu per il dibattito, che si protrae da decenni, sulla partecipazione di Taipei all’assemblea dell’Oms, sempre ostacolata dalla Cina che è membro permanente, e quindi con diritto di veto, delle Nazioni Unite. Ma è la risposta del governo della piccola isola a scatenare il dibattito internazionale: dopo alcune indiscrezioni pubblicate a marzo dal dal Wall Street Journal, che citava fonti dell’esecutivo, Taiwan dichiara di aver avvertito l’organizzazione diretta da Ghebreyesus della trasmissione uomo-uomo del virus già a dicembre, mentre l’annuncio di Cina e Oms arriverà solo il 21 gennaio. Versione smentita dall’organizzazione. L’unica comunicazione da parte di Taiwan, spiega l’Oms, è stata una mail del 31 dicembre nella quale si menzionavano “casi di polmonite atipica a Wuhan che le autorità locali non ritenevano essere Sars. In questa mail non c’era nessun accenno alla trasmissione da uomo a uomo”.

Uno degli esempi più emblematici della difficoltà all’interno dell’Oms di gestire i rapporti tra gli Stati membri, in particolar modo le pressioni cinesi su Taiwan, è un’intervista realizzata a marzo dalla tv pubblica di Hong Kong Rthk in cui la giornalista Yvonne Tong intervista Bruce Aylward, capo missione dell’organizzazione in Cina, chiedendo al medico se non fosse il caso di rivalutare l’ammissione del Paese come membro dell’Agenzia Onu, visti anche gli ottimi risultati ottenuti nel contrasto alla diffusione del virus. In tutta risposta, Aylward fa cadere la chiamata Skype e, ricontattato, si rifiuta di rispondere alla domanda interrompendo l’intervista.

La Cina, intanto, si schiera in difesa di Ghebreyesus, anche lui accusato di essere legato a doppio filo con i vertici della Repubblica Popolare a causa dei suoi trascorsi politici, e risponde sostenendo che quello di Taiwan non è altro che un tentativo di “usare la pandemia a fini di politicizzazione e stigmatizzazione”.

Ma la guerra a suon di botta e risposta sui media internazionali è ormai iniziata e coinvolge presto tutti gli Stati membri dell’Oms, preoccupati dalle presunte pressioni politiche sull’organizzazione. Più volte l’intelligence di Taiwan ha fatto uscire notizie contro la Cina e i suoi alleati sul tema coronavirus, alcune delle quali, come la morte di Kim Jong-un, rivelatesi poi false.

Il grande tema che occupa il dibattito tra i Paesi membri dell’Oms, in virtù degli ottimi risultati in fatto di contenimento della pandemia (440 casi confermati e 7 vittime al 20 maggio, secondo i dati della Johns Hopkins University) e delle rivelazioni sulle segnalazioni all’organizzazione, è il ritorno di Taiwan alle assemblee dell’Agenzia. A sollevare per prima la questione, il 1 maggio, è l’Australia, aggravando così le tensioni diplomatiche tra Canberra e Pechino legate al sostegno del governo australiano a un’indagine internazionale sulle origini e la gestione del coronavirus. Inchiesta alla quale la Cina si oppone. In un’intervista, l’ambasciatore cinese in Australia, Cheng Jingye, ha avvertito che la presa di posizione di Canberra può far scattare un boicottaggio di servizi e prodotti. L’iniziativa porterebbe i turisti cinesi a “pensarci due volte” prima di visitare l’Australia, mentre i genitori di studenti si domanderanno se l’Australia “sia il posto migliore per mandare i figli a studiare”. E la gente comune dirà “perché dovremmo bere vino australiano o mangiare bistecche australiane?”, ha dichiarato. Minacce simili a quelle inviate anche alla Nuova Zelanda che si era schierata con Canberra.

A fare più rumore è però la presa di posizione degli Stati Uniti, primo finanziatore dell’organizzazione. Il primo a intervenire sulla questione, il 6 maggio, è il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, resosi protagonista anche per essere tra i maggiori sostenitori della teoria secondo cui il coronavirus avrebbe avuto origine in un laboratorio di Wuhan e non in natura, come invece sostengono le principali riviste scientifiche internazionali. In quest’occasione, Pompeo ha proposto la partecipazione di Taiwan all’assemblea dell’Oms del 18 maggio. Domanda avanzata poi anche da Taipei: “Il modello Taiwan ha dimostrato che una democrazia trasparente può rispondere in modo efficace alla pandemia di Covid-19“, ha detto il viceministro degli Esteri, Kelly Wu-Chiao Hsieh. Una richiesta che poi l’organizzazione non ha soddisfatto, anche dopo la “forte opposizione” e la “protesta formale” cinese, rimandando la discussione sul tema alla prossima seduta, scatenando le proteste della controparte.

Pechino aveva posto delle condizioni alla partecipazione dell’isola all’assemblea del 18 maggio che, però, il governo “ribelle” ha ritenuto inaccettabili. Tra queste c’era il riconoscimento del principio di “un Paese, due sistemi” in stile Hong Kong, richiesta irricevibile per la presidente Tsai Ing-wen che nel discorso inaugurale del suo secondo mandato ha sottolineato che “non accetteremo l’uso da parte di Pechino di ‘un Paese, due sistemi’ per declassare Taiwan e minare lo status quo. Restiamo fermi nel rispetto di questo principio”. “Sono dispiaciuta – aveva dichiarato solo 24 ore prima – che l’Oms abbia nuovamente escluso Taiwan dal dialogo internazionale per motivi politici. La politica non dovrebbe mai prevalere sulla professionalità e nessuna pressione ci impedirà di continuare a combattere il Covid-19 e di contribuire alla salute globale”. Un epilogo che, però, ha scatenato le proteste degli Stati Uniti, che già avevano bloccato il pagamento dei fondi all’organizzazione e da giorni minacciano di sospenderlo a tempo indeterminato. Pompeo, in una nota, ha accusato l’agenzia dell’Onu di aver ancora una volta ceduto alle pressioni della Cina, evidenziando l’assenza di indipendenza e mancanza di credibilità, a suo dire, del direttore generale Ghebreyesus.

Dopo mesi di domande, accuse e risposte sulla gestione dell’emergenza da parte della Cina e dell’Oms, più di 100 Paesi hanno chiesto l’apertura di “un’inchiesta indipendente sulla pandemia di coronavirus”. Pechino si è di nuovo opposta, rivendicando la propria trasparenza dall’inizio della crisi e spiegando che questo non è il momento giusto per avviare un’indagine: “Ci vorrà un’indagine esaustiva sul Covid-19 basata sulla scienza ed eseguita con professionalità – ha dichiarato il presidente Xi Jinping -, ma solo quando l’emergenza sarà sotto controllo”. Parole simili a quelle pronunciate poche ore dopo da Ghebreyesus e che hanno raccolto una timida approvazione da parte degli Stati: “Avvierò un’inchiesta indipendente al primo momento opportuno per valutare l’esperienza e le lezioni imparate e per fare alcune raccomandazioni su come migliorare la preparazione nazionale e globale alla pandemia”, ha detto il direttore generale.

Lo scontro con Taiwan, anche pubblico, va avanti. La Cina continua a ribadire che “non tollererà mai” la separazione dalla Cina e sposta il proprio mirino anche sugli alleati della piccola isola, compresi gli Stati Uniti. Pechino ha dichiarato che le mosse Usa su Taiwan “violano le promesse fatte”, esprime “forte indignazione e condanna” su azioni che “danneggiano gravemente la pace e la stabilità delle relazioni Cina-Usa” e prenderà “le necessarie contromisure e gli Usa ne dovranno pagare le conseguenze“.

Twitter: @GianniRosini

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