Fate presto! Questa terapia funziona davvero! Negli ultimi due mesi, come parlamentari, abbiamo ricevuto tantissime sollecitazioni da parte di chi riteneva di aver trovato sui social la “terapia miracolosa”, affinché fosse applicata a tutti e, soprattutto, prima possibile. Da scienziati, abbiamo invitato sempre alla prudenza, perché sappiamo bene che ogni terapia comporta inevitabilmente benefici ma anche rischi di effetti collaterali. Inoltre, solo una valutazione attenta e rigorosa, tale da dimostrare che la bilancia penda dalla parte dei benefici, può consentire che una terapia sia autorizzata in modo definitivo. La condivisione di articoli prima della revisione tra pari (processo che ne garantisce, anche se non in modo assoluto, l’affidabilità) è divenuta una pratica comune, con tutti i vantaggi e le criticità del caso.

Se allo scoppio della pandemia la scienza si è messa a correre, i social hanno raggiunto la velocità della luce. Rivediamo un attimo al rallentatore quello che è successo nelle ultime settimane.

Il miracolo (?) dal Sol levante

La prima terapia a guadagnare una certa rilevanza sui social è stata quella con l’Avigan. Un ragazzo in vacanza in Giappone ha pubblicato un video, poi divenuto virale, nel quale affermava che la gente era tranquillamente in strada in un quartiere di Tokyo grazie a questa “medicina miracolosa”. In realtà si è scoperto che il farmaco, potenzialmente teratogeno, causa cioè di anomalie o alterazioni nell’embrione, non poteva essere venduto liberamente al pubblico ma era controllato direttamente dal governo giapponese, il quale doveva autorizzarne l’uso. Quindi erano totalmente prive di fondamento le voci di una sua distribuzione ed efficacia di massa.

Una consacrazione prematura

Poi, è stato il turno dell’idrossiclorochina, un vecchio farmaco antimalarico, che Donald Trump e altri politici americani hanno prematuramente esaltato. La sua fama è derivata anche dalla super-sponsorizzazione di un ricercatore francese molto noto, Didier Raoult, che ha pubblicato anche un articolo interessante ma relativo a pochi pazienti.

Sono stati avviati diversi trial clinici in modo affrettato. In alcuni casi però, si è osservato un aumento della mortalità maggiore in seguito a trattamento con idrossiclorochina per la nota cardiotossicità del farmaco, a fronte di deboli effetti benefici.

Non ci resta che attendere

Un farmaco antivirale non è stato spinto da clamore mediatico ma da dati scientifici più consistenti è il Remdesivir, che ha mostrato dei risultati incoraggianti in uno studio ampio (oltre mille pazienti): il periodo sintomatico per la malattia è passato da 15 a 11 giorni, e la mortalità da 11,6% a 8%.

Sono questi risultati sufficienti per dire che Avigan e idrossiclorochina non funzionano e Remdesivir invece funziona un poco? Non ancora, perché ci sono troppi fattori che devono essere valutati, come ad esempio lo stadio della malattia a cui sono somministrati. Quindi, paradossalmente la partita potrebbe essere ancora in parte aperta, ma sicuramente sarà solo l’esito dei diversi studi clinici autorizzati a darci una risposta definitiva. L’unica certezza è che potremmo trovarci di fronte a farmaci utili sì, ma in ogni caso non miracolosi.

Soluzioni via Whatsapp

Dopo gli antivirali, è arrivato il momento dell’eparina, pubblicizzata tramite un messaggio “virale” via Whatsapp, perché scioglieva i trombi venosi che si osservavano in maggiore formazione in seguito alla malattia Covid-19 e nei soggetti più gravi. Anche in questo caso, sebbene l’eparina fosse già utilizzata in molti protocolli terapeutici anti-Covid-19, solo una sperimentazione accurata su pazienti con caratteristiche omogenee potrà darci certezze maggiori.

La via (problematica) del plasma

In fondo alla lista c’è la terapia con il plasma (parte del sangue priva di cellule) prelevato dai soggetti guariti dall’infezione, il cosiddetto “plasma iperimmune”, che risale addirittura al premio Nobel 1901 Emil Adolf von Behring. Purtroppo, a fronte di dati iniziali incoraggianti che andavano però valutati con cautela, sui social si è ancora una volta scatenato il caos. C’è chi l’ha proposta addirittura come un’alternativa ai vaccini (“I vaccini fatteli tu, io mi curo con il plasma” è il grido di battaglia) senza capire che in realtà plasma e vaccini si basano esattamente sullo stesso principio e cioè utilizzo di anticorpi che combattono il virus. Con una differenza: gli anticorpi della plasma-terapia sono di un’altra persona e hanno un’efficacia limitata nel tempo, mentre il vaccino fa produrre i propri anticorpi con un effetto più duraturo.

La plasma-terapia è interessante, ma sono necessari studi clinici randomizzati (anche questi appena autorizzati) per poterne confermare l’efficacia perché, ricordiamolo, anch’essa ha delle problematiche:

– il plasma dei guariti è ricco di anticorpi solo per un breve periodo dopo la guarigione;

– per ottenere il plasma serve una procedura complessa tramite una macchina che “centrifuga” il sangue, trattiene la parte liquida (il plasma appunto) e restituisce al donatore la parte cellulare (globuli bianchi, rossi, piastrine);

– con un donatore si possono curare al massimo due pazienti;

– infine, la trasfusione di plasma reca con sé tutti i rischi delle trasfusioni, come le possibili infezioni.

Dati ancora incerti

Ma quanto funziona il plasma? Come già ampiamente discusso, uno dei problemi principali delle terapie contro il coronavirus è che la maggior parte delle persone (anche quelle ospedalizzate) guarisce, e non è semplice valutare se questo sia avvenuto proprio grazie alla terapia. Lunedì scorso sono stati resi noti dei dati sull’utilizzo della plasma-terapia effettuata negli ospedali di Mantova e di Pavia.

Su 46 pazienti trattati con plasma la mortalità è stata del 6%, mentre, negli stessi ospedali la mortalità precedentemente variava dal 13 al 20%, con un valore medio del 15%. Questo significherebbe che anziché 7 pazienti in quel campione ristretto ne sono morti solo 3, ma è chiaro che ci sia una forte incertezza su questi numeri che possono essere chiarite solo studiando un numero di pazienti maggiore.

Curiamo (anche) l’infodemia

Quello che purtroppo non siamo ancora riusciti a curare è la velocità con cui le fake news si diffondono sui social e come influenzino l’opinione pubblica, a volte addirittura riprese e amplificate dai media tradizionali. È la cosiddetta infodemia, che il dizionario Treccani definisce come “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Quando c’è di mezzo la salute, questo rappresenta un atteggiamento particolarmente irresponsabile, perché spingendo affinché si scommetta tutto sulla cura sbagliata si rischia non solo di non aiutare nessuno, ma anche di ritardare la scoperta di una terapia davvero utile e potenzialmente risolutiva.

Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Angela Ianaro, professore associato di Farmacologia presso la Scuola di medicina dell’Università di Napoli Federico II e deputata M5S.

Articolo Precedente

Coronavirus, lo studio: parlare ad alta voce può diffondere il virus. “Goccioline di fluido orale sospese nell’aria per almeno 10 minuti”

next
Articolo Successivo

Vaccino Coronavirus, azienda Usa annuncia: “Volontari hanno sviluppato anticorpi”. Ma scienziati di Oxford sono più avanti

next