“Ogni giorno sui luoghi di lavoro si infettano trecento persone. Dieci di esse non ce la fanno”. La dichiarazione del ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia che riferisce una stima dell’Inail è allarmante. Non sembra infatti un consuntivo di quel che è accaduto, piuttosto un’analisi quotidiana di ciò che sta accadendo. E queste cifre che paiono minori rispetto alla disgrazia avvenuta sono invece enormi.
Malgrado ogni raccomandazione e precauzione, aprire le fabbriche alimenta oggettivamente la malattia. Aprirle in regime controllato contiene i morti ma non li annulla ancora, riduce i contagi ma non spegne la curva. Fa fuori ogni giorno dieci lavoratori. Che non sono perciò anziani ammalati ma gente nel pieno degli anni e, si presume, anche in una condizione fisica buona.
E’ l’Italia intera a moltiplicare per dieci i rischi dell’Ilva di Taranto, a produrre il corto circuito della nostra etica, la contraddizione del senso della nostra vita: il lavoro come espressione della nostra dignità o come motore della nostra malattia? E non abbiamo la possibilità di scegliere.
A dividere il Nord dal Sud oggi è il virus. Quel virus che si alimenta nelle fabbriche. Perché corre dove più intensa è la filiera industriale. Si arresta nei territori più poveri.
Il Veneto, ora sugli scudi per la sua capacità di monitorare e contenere il contagio, non è stato mai chiuso. L’ha detto più volte il governatore Luca Zaia. La maggioranza delle aziende non ha mai smesso. Quanto è costata questa scelta? Il Veneto (4,9 milioni di abitanti) ha subìto 1589 decessi. A Sud la Campania (5,8 milioni di abitanti) ne ha contati 379.
Il virus scava una fossa, purtroppo in senso non solo metaforico, tra le due Italie. Le distanzia, le separa e conduce quella più ricca a fare i conti con la propria vita. Un dazio quasi inesistente al Sud che però è costretto a fronteggiare una nuova sciagura: vedere i suoi abitanti trasformarsi nel grande popolo dei sussidiati. Ad attendere l’elemosina di Stato e poi, quando il portafogli pubblico si sarà svuotato, a dire un’Ave Maria.
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