Il rischio è quello di una vera e propria spaccatura. Da un lato i vertici della Cei che, dopo settimane di tensione anche aspra col governo di Giuseppe Conte, hanno finalmente ottenuto il via libera alle messe coi fedeli dal 18 maggio. Dall’altro la base della Chiesa italiana, parroci e vescovi, che nelle ore successive alla firma del protocollo che regola le celebrazioni col popolo hanno espresso notevoli perplessità, per usare un eufemismo, sulle modalità che sono state stabilite dalla Cei e dal governo.

Si lamenta una vera e propria intromissione nella vita ecclesiale, in particolare liturgica e pastorale, con indicazioni che non possono essere dettate alla Chiesa dal governo. Nel protocollo si legge per esempio: “Si ricorda la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute”.

Ma sono anche altri aspetti che danno il senso di questa intrusione come l’indicazione di “ridurre al minimo la presenza di concelebranti e ministri” sull’altare; l’ammettere la presenza di un organista, ma non del coro; il rimandare le cresime a data da destinarsi. E le prime comunioni? E sui matrimoni come possono gli sposi scambiarsi le fedi nuziali rispettando la distanza di sicurezza di almeno un metro?

L’impressione è che questo protocollo sia stato subito dalla Chiesa italiana e che esso sia stato redatto da persone che non frequentano abitualmente le parrocchie. Eppure al termine del documento si legge: “Il Comitato tecnico-scientifico, nella seduta del 6 maggio 2020, ha esaminato e approvato il presente ‘protocollo circa la ripresa delle celebrazioni con il popolo’, predisposto dalla Conferenza episcopale italiana”.

È stata davvero la Cei a imporsi delle norme così ferree? E perché? Per evitare di ritardare ulteriormente le celebrazioni coi fedeli mentre tanti esercizi commerciali alzavano le saracinesche? Ma la messa non è, né può essere paragonata a un’attività lavorativa. La domanda è più che legittima: non era meglio attendere, magari a giugno, per far tornare i fedeli a messa, in sicurezza, ma senza neanche rendere complicatissima la vita ai parroci?

Già, perché tutto il peso del rispetto del protocollo cade sulle spalle del legale rappresentante della parrocchia, ovvero del parroco. E i costi per la sanificazione, da effettuare dopo ogni messa, chi li sostiene? Igienizzare una cattedrale, una basilica e un santuario dopo ogni celebrazione può comportare un tempo abbastanza lungo. Ma anche tante parrocchie più o meno grandi non si possono igienizzare rapidamente dopo ogni messa, soprattutto se si considera che le celebrazioni festive sono numerose.

C’è poi nel protocollo il punto più dolente per i sacerdoti: “Le eventuali offerte non siano raccolte durante la celebrazione, ma attraverso appositi contenitori, che possono essere collocati agli ingressi o in altro luogo ritenuto idoneo”.

Si era detto per settimane che il divieto dei fedeli di partecipare alle messe aveva notevolmente inciso, in modo negativo, nei bilanci delle parrocchie che, a fronte di spese immutate, si sono ritrovate senza i soldi delle offerte. E ora cosa decidono il governo e la Cei? Di vietare le questue durante le messe. Ovvero di incrementare il danno economico che le parrocchie, come tantissime altre realtà, hanno subito durante il lockdown.

A leggere il protocollo sembra quasi che dai vertici della Chiesa italiana ci sia una volontà autolesionistica per quel mondo che essi stessi rappresentano e che dovrebbero tutelare. Quel mondo fatto di tante piccole realtà diffuse in tutta la Penisola che hanno fatto l’Italia e che ieri come oggi sono presidi di legalità e carità.

Quel mondo rappresentato da migliaia di sacerdoti che ogni giorno ci mettono la faccia, non senza immani sacrifici, a dispetto di quei pochi che sbagliano, e che continuano a contribuire in modo prezioso e insostituibile alla vita del nostro Paese.

Gettare sulle loro spalle un peso così eccessivo, quasi come se le parrocchie fossero i luoghi del contagio, non è giustificato. Soprattutto se arriva da chi, al vertice della Chiesa italiana, dovrebbe avere a cuore e difendere la vita di queste piccole comunità. Sembra quasi che alla Cei interessasse unicamente chiudere in fretta la partita col governo, dopo i toni insolitamente duri usati dal vertice dell’episcopato nei confronti di Palazzo Chigi, e risanare i rapporti tesi.

Ciò non per una scelta autonoma, bensì per obbedire alle indicazioni di Papa Francesco che non ha gradito per nulla lo scontro tra la Conferenza episcopale italiana e l’esecutivo, e di ciò non ha mai fatto mistero. Ma si può, in nome di questi interessi, sacrificare sull’altare della politica la vita delle parrocchie italiane? Le prossime settimane ci diranno se i passi compiuti dalla Cei sono stati fatti in favore di Cesare o in favore di vescovi, preti e fedeli.

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