Giorgio Agamben non demorde. Dopo essere rimasto, con Vittorio Sgarbi, l’ultimo dei giapponesi che negano la pandemia, insiste con le sue prediche all’intero pianeta, che si farebbe menare per il naso dagli “inventori” del virus. Nell’ultimo post, intitolato Una domanda, dopo aver tirato le orecchie al papa, al governo e ai giuristi, si chiede se tutto questo non sia colpa della scienza e della medicina, che ci hanno indotto a considerare gli umani meri corpi biologici, oggetto di “governo della nuda vita”, per usare il più fortunato dei suoi mantra.

Verrebbe da rispondere: ma certo che sì. Non però nel senso che il virus l’abbiano inventato i medici e gli scienziati: queste sono farneticazioni. Semmai, nel senso che la gestione dell’emergenza è un caso da manuale, dopo le isterie securitaria e anti-migranti, di un altro mantra agambeniano: la biopolitica. Lo spiego in tre righe: quando i governi, nel Sei-Settecento, decisero di puntare sul mercato come mezzo per produrre ricchezza, crearono una serie di istituzioni che assicuravano la disciplina: asili, scuole, caserme, prigioni, ospedali, manicomi, ospizi, fabbriche…

Ok: e ora dovremmo stupirci che tutte queste istituzioni cooperino al più colossale esperimento di disciplinamento di massa dai tempi della seconda guerra mondiale? Mi stupisco dello stupore di Agamben, ma ancor più della sua insistenza nel non voler capire. Anch’io, a febbraio, mi chiedevo in cosa questa pandemia differisse dai tanti virus influenzali precedenti, e chiedevo che ci dessero i numeri dei morti degli anni scorsi per fare il confronto. Poi ho capito: sarebbe bastato fare come in Germania, dove i malati sono stati tracciati sin da gennaio, e davvero tutti questi morti in più non ci sarebbero stati. Agamben no, lui non ha ancora capito, ed è sempre lì a cianciare di complotti globali, come gli insofferenti in coda al supermercato.

C’è un punto, però, sul quale ha ragione, ed è quando ci domanda: “Come abbiamo potuto accettare […] che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma – cosa […] mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?”. È vero: basterebbe guardare le cifre dei morti nelle residenze per anziani, non solo in Lombardia, per rendersi conto che a un certo punto è stata fatta una scelta radicale. Fra i contagiati che affollavano gli ospedali e gli anziani rinchiusi nella residenze “protette”, è stato scelto di sacrificare gli anziani. Se ci sono state responsabilità penali lo accerterà la magistratura: ma è andata proprio così.

Lo stesso Agamben evoca Auschwitz come esempio di biopolitica liberista e come precedente della strage degli anziani. Ce lo ricordano anche, in un libro appena uscito – 1945. Ich Bin Schwanger (sono incinta) (IRSRECFVG, Trieste, 2020) – una storica, Anna Di Gianantonio, e l’ideatore dell’annuale convegno triestino “Convivere con Auschwitz”, Gianni Peteani. Il libro, con prefazione di Tatiana e Andra Bucci, deportate bambine, è la storia di Nerina Ursini Legovich, deportata a Ravensbrük e salvata solo dal fatto di essere incinta: nel suo caso, la nuda vita parve sacra persino agli aguzzini. Ma non è una storia a lieto fine. La figlia portata in grembo per tutta la detenzione, Sonia, nacque al ritorno della madre a Trieste, ma questo non migliorò i loro rapporti. Come ricorda Peteani, anche lui figlio di una deportata, pure Nerina cercò di dimenticare, e fu solo il nipote Manolo, molti anni dopo, a pretendere di sapere cosa era davvero successo a sua nonna.

Ecco, alla vigilia del 25 aprile, mentre si cerca di insabbiare anche le indagini sulla strage degli anziani, si dovrebbe ricordare che la Memoria non è una scelta: è un dovere.

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