“Non abbiamo soldi da donare agli ospedali, ma volevamo fare qualcosa per la comunità in cui viviamo. Così abbiamo iniziato a produrre mascherine”. Il 26enne gambiano Musa è arrivato a Ceres, comune di mille abitanti in provincia di Torino, sei anni fa. In queste vallate ai piedi delle Alpi piemontesi, lavora come cuoco in un rifugio. Ma dopo la chiusura a causa delle restrizioni anti Covid-19, si è chiesto come poteva essere utile insieme ai suoi otto compagni di appartamento. “Tra di noi c’è chi faceva già il sarto – spiega mentre taglia un pezzo di stoffa – così abbiamo pensato di iniziare a fare le mascherine”.

Seguendo i consigli della sarta del paese, l’ottantenne Anita, e del presidente della Morus Onlus Marino Poma, i ragazzi hanno iniziato a studiare il prototipo. Ma il problema più grande era quello di reperire materiali senza spostarsi troppo dal comune. “La merceria del paese ha fornito il cotone, l’agraria ci ha dato il tnt mentre io avevo in casa le fascette per chiuderle la mascherina” racconta Marino Poma. Così la produzione è potuta partire. Gli otto ragazzi lavorano dalle 9 del mattino alle 8 di sera e riescono a produrre cento mascherine al giorno. “Sono formate da tre strati, uno interno di cotone a trama fitta, un triplo strato di tnt e un secondo strato esterno di cotone e sono dotate del ferretto nasale” spiega Poma che specifica che le mascherine “non sono certificate perché non abbiamo avuto il tempo di chiederlo, ma abbiamo voluto tappare un buco dato che in paese erano introvabili”. L’ultimo passaggio della catena di produzione è rappresentato dalla sanificazione con il ferro da stiro. Poi le mascherine vengono donate agli abitanti della zona tramite la Protezione Civile. Ma le richieste sono iniziate ad arrivare anche da altre realtà più lontane. “Questa terra ci ha accolto e questa è l’unica cosa che possiamo fare per aiutare l’Italia”.

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