di Selene Lovecchio

Siamo volontari e attivisti di No Name Kitchen, un’Ong attiva in quattro diversi punti lungo la rotta balcanica: Sid in Serbia, Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, Podgorica in Montenegro e Patras in Grecia. Da qualche settimana si lavora anche in un altro punto: Melilla, città indipendente spagnola in Marocco.

Siamo preoccupati: siamo stati costretti a fuggire da Sid il 18 marzo 2020, dunque impossibilitati a continuare a lavorare, per colpa di due grandi mostri che iniziavano a far ombra anche su di noi: Covid-19 e l’apertura della frontiera turco-greca. Una decisione politica che a suo tempo avrebbe sicuramente comportato una grande affluenza lungo tutta la rotta balcanica.

Noi siamo potuti tornare a casa, dalle nostre famiglie; le persone in transito sono invece state stipate nei tre campi che costellano la piccola cittadina al confine serbo-croato: il Family Camp, che si trova nel centro città, e Principovac e Adascevci Camp, che si trovano a 10 km da Sid, nel nulla, emarginati dalla società. Tutti i campi sono sovraffollati, con la presenza di un solo medico per campo. Questo nuovo virus potrebbe provocare un problema umanitario e sanitario di cui nessuno si prenderà cura, se non continuando a circondare i campi di nuove pedine armate, preoccupate solo di non lasciare scappare nessuno.

Tutto è temporaneamente bloccato ora, ma un mese fa c’era molto fermento: il fenomeno dei “push-back”, dei respingimenti al confine, è documentato (almeno sulla rotta balcanica) da un network che prende il nome di Border Violence Monitoring Network, all’interno del quale collaborano diverse organizzazioni che intervistano e documentano. Sono state raccolte quasi 700 testimonianze che parlano delle più efferate e cruenti modalità di respingimento.

Questo fenomeno, già di per sé illegale, è aggravato dal fatto che la violenza ne è protagonista nella maggior parte dei casi. Abbiamo visto foto di uomini martoriati, teste sanguinanti, una gamba bruciata da un ferro rovente; abbiamo ascoltato la storia di un gruppo abbandonato senza vestiti in mezzo a un bosco, nella sadica volontà di lasciarli osservare i loro averi bruciare; storie di donne incinte detenute per giorni, senza cure mediche, senza cibo adatto, senza alcun tipo di trattamento in linea con i famosi diritti umani. Storie di torture dispiegatesi con l’ausilio di unità cinefile, acqua, scosse elettriche.

Non solo respingimenti forzati, però: la violenza fa da padrona anche nella cittadina di Sid. A seguito dell’apertura della frontiera turco-greca, per “fronteggiare l’emergenza migratoria” che ne sarebbe derivata da lì a breve, si è pensato bene di costellare la città di nuove forze speciali, dalla divisa nera e il cappellino. Queste hanno inaugurato una vera e propria caccia all’uomo, con atteggiamento intimidatorio, violento e aggressivo. Hanno iniziato a “catturare” tutti i ragazzi che vivevano nelle così dette “jungle” per portarli nei campi contro la loro volontà, in una cornice di percosse, soldi rubati, effetti personali bruciati.

I ragazzi che abitano le jungle vengono principalmente dall’Afghanistan: uomini dai 15 ai 30 anni, molto giovani. Quella di vivere all’aperto, sotto la pioggia, al freddo delle tende da campeggio e nella costante dimensione di preda per la polizia, è una loro scelta. La scelta non può che rimarcare un’affascinante presa di posizione e di ribellione verso il sistema del campo governativo stesso, che stanzia le persone in una dimensione del tempo congelata, che non lascia loro nessun’altra possibilità se non aspettare inerti lo scorrere dei giorni, cancellando qualunque cosa che non sia bisogno primario e necessario. Un sistema che annulla gli esseri umani. I ragazzi che vivono nelle jungle sono spiriti che vogliono rimanere liberi, capaci di decidere senza nessuna limitazione. Ai loro occhi un campo non è nient’altro che un eterno limbo dantesco. Sono loro le principali vittime, oseremmo dire le uniche.

È però doveroso raccontare di una città dall’anima ultra-nazionalista che ha colpito anche noi volontari. La durezza di questo luogo è percepibile direttamente nei polmoni, l’aria è stantia, pesante, nera; ma c’è un motore, un instancabile generatore di energia positiva proveniente dai migranti che lascia tutti esterrefatti. Un’energia che viene in parte sradicata da sentori filo-fascisti che con grande libertà prendono piede in territori poco stratificati, quali Sid. Ed è dunque possibile vedere il risultato di un connubio così deleterio anche nei cittadini locali o in gruppi da tempo radicati nel territorio.

Con grandissima facilità le autorità serbe possono respingere dal territorio i volontari. Qualunque accusa ha come risoluzione una sentenza che obbliga a lasciare il Paese. Esiste un movimento, legale e registrato, che prende il nome di Chetniks. I membri di questo gruppo, senza riguardo e con la piena acquiescenza dell’intera popolazione, lavorano in stretta collusione con la polizia locale. Alcuni di noi hanno avuto il disgustoso onore di poter assistere alle strette di mano, agli elogi e alle lusinghe dei poliziotti nei loro confronti ogni qualvolta essi riuscivano a scovarci durante una delle distribuzioni e bloccarci in quel luogo, in attesa di “giustizia”.

Con questo meccanismo per ben tre volte sono riusciti a cacciare letteralmente cinque volontari. L’ultimo avvenimento ha visto protagonista una ragazza spagnola, un’infermiera che aveva raggiunto Sid solo da un giorno, detenuta per una notte senza coperte, cibo, acqua, privacy. I 20 mg di Diazepam, pure se accompagnati dalla ricetta prescritta dal proprio medico, le sono costati una notte di detenzione e ovviamente l’espulsione.

Teatrini di processi messi in piedi nel giro di qualche ora, in totale assenza di procedure che si avvicinino anche lontanamente alla legalità, senza avvocati, senza testimonianze. Una giurisprudenza inventata per espellere chi ideologicamente si trovi lontano da loro.

Non troviamo tali “atti di giustizia” solo grotteschi, ma vero e proprio vandalismo all’ordine del giorno: gli arcobaleni delle mura della casa dei volontari messi a tacere da scritte quali “Migrants go home” o “Serbia hates you”, o le svastiche che ricoprono l’intero van, mezzo di spostamento dei volontari.

La gravità di questi atti durante un’ordinaria giornata a Sid, nonostante venga subito spenta dai sorrisi di gratitudine che circondano i volontari, non andrebbe ignorata.

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