Bergamo is running, Bergamo sta correndo. Un video, quello diffuso dall’associazione degli industriali lo scorso 28 febbraio sul suo sito internet (ne ha dato notizia Il Fatto Quotidiano) che ha sollevato un polverone. E poi il ruolo giocato, sempre a cavallo tra la fine dello scorso mese e marzo, nella partita che ha portato a non istituire una zona rossa nel peggior focolaio di coronavirus d’Italia: la Valle Seriana. In questa partita, che ha visto il rimpallo di responsabilità tra Regione e governo, che ruolo ha giocato Confindustria? Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto a Stefano Scaglia, numero uno dell’associazione a Bergamo.

Presidente, in piena emergenza avete pubblicato un video per dire che a Bergamo andava tutto bene. È stato un errore?
Quando è nata l’idea del filmato, volevamo comunicare ai partner esteri che le nostre aziende stavano lavorando normalmente. Le cose sono precipitate di lì a poco. Faccio notare che fino alla prima settimana di marzo le persone uscivano a fare l’aperitivo o andavano a sciare. E politici ed esperti invitavano a fare lo stesso. Oggi, per quel video, chiedo scusa. Mi scuso se ha urtato e se ancora urta la sensibilità di tante persone. È stato un errore, sì. Questa tragedia accomuna tutti, qui, nella Bergamasca.

Nei primi giorni di marzo è sfumata l’istituzione della zona rossa nei comuni di Nembro, Alzano Lombardo e Albino. Da quello che abbiamo potuto ricostruire, alcuni imprenditori di quell’area si sono opposti. Le risulta?
Da parte nostra abbiamo comunicato alla prefettura, come ci è stato richiesto, l’elenco delle attività economiche che fatturano più di 100mila euro all’anno. Dopodiché, non so quale sia stata la catena di decisioni che ha portato a scartarla. Ricercare di chi sia la colpa di certe scelte credo che ora sia dannoso. A bocce ferme chi vorrà fare analisi e polemiche potrà farlo. Aggiungo che, a oggi, nessuno sa se la creazione di quella zona rossa avrebbe cambiato il corso degli eventi.

Fonti vicine agli industriali, così come quelle sindacali, affermano che lei, personalmente, era a favore della zona rossa. È così?
Appena abbiamo avuto consapevolezza di ciò che stava accadendo, abbiamo raccomandato alle imprese di lavorare con le autorità sanitarie locali per mettere a punto i protocolli di sicurezza. Abbiamo raccomandato agli imprenditori che non riuscivano a garantire i necessari standard di sicurezza di valutare se sospendere la produzione. Ecco, è probabile che questi atteggiamenti siano stati interpretati come una propensione favorevole alla zona rossa.

È un sì.
È la sua interpretazione.

L’ipotesi è quella di un asse tra il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, e alcune aziende che sarebbero state coinvolte dall’istituzione della zona rossa. Un asse, saldatasi con quella di Roma, per dire no alle misure più stringenti. Le risulta?
Bisogna distinguere tra situazioni esplicite e deduzioni. In quel momento Confindustria Lombardia, che aveva una visione complessiva della regione e non puntale sulla Bergamasca, come potevamo averla noi, dava certi messaggi. Messaggi in linea col territorio lombardo, che non stava vivendo quello che accadeva a Bergamo. Credo che non ci sia stato nulla di concordato, ma semplicemente una coincidenza tra visioni comuni.

Secondo diverse fonti, l’azienda Persico spa di Nembro sarebbe stata la capofila tra le imprese contrarie alla chiusura della Bassa Valle Seriana.
Io guardo ai fatti: le imprese bergamasche sono state ben più prudenti delle istituzioni. In qualche modo le hanno anticipate. Dopodiché, ognuno è portatore di visioni e punti di vista che è giusto che vengano esplicitati. L’ultima parola tocca ai decisori politici.

Torno all’asse tra aziende bergamasche, Bonometti e la presidenza nazionale degli industriali: Confindustria ha fatto pressioni perché il governo non istituisse la zona rossa?
Escludo che ci siano state pressioni. In una società complessa come la nostra, ci sono tanti soggetti e, come dicevo prima, ognuno è portatore di una visione. È diritto di tutti i soggetti portare ai decisori le proprie informazioni e i propri punti di vista.

Nemmeno una sorta di moral suasion?
Più che attività di moral suasion, ribadisco, credo che sia un dovere da parte di tutte le categorie e di tutti i portatori di interessi esplicitare i propri punti di vista. Perché è fondamentale avere il quadro delle conseguenze che potrebbero nascere dalle singole decisioni.

È d’accordo con Renzi quando dice “non possiamo stare chiusi due anni, bisogna riaprire le fabbriche”?
Personalmente non ho le competenze per poter dire se e quando e in che forma bisognerà ripartire. Come dice giustamente il presidente del Consiglio Conte, la valutazione verrà fatta dal comitato scientifico. Ciò che è sicuro è che una chiusura prolungata può provocare conseguenze importanti per la sopravvivenza della nostra comunità. Dire “chiudere tutto” è corretto ma non è sostenibile per sempre. L’esercizio vero, complicato, da fare – e che nessuno mi pare stia facendo – è capire come si potrà ripartire.

Fonti sindacali sostengono che “migliaia” aziende bergamasche vogliono riaprire. Le richieste sarebbero già sul tavolo del prefetto. Le risulta?
Sono circa 1700, per l’esattezza. E mi stupisce che siano così poche. Se ci pensa, su un totale di 26.760 società di capitali, sono il 6%. Vorrei fosse chiara una cosa: queste aziende chiedono di aprire per tenere aperte le filiere. Lo fanno per senso di responsabilità.

In un momento come questo non sarebbe più opportuno salvaguardare la salute pubblica, lasciando in funzione solo le attività essenziali?
Il problema sta proprio qui: stabilire cosa è essenziale e cosa no. Secondo lei le posate di plastica sono essenziali o no? Probabilmente non lo sono. Ma se le dicessi che ce le stanno chiedendo per il nuovo ospedale della Fiera che verrà gestito dagli alpini? A quel punto lo diventano.

Cosa si aspetta che succeda nel “dopo”, c’è il rischio che molte aziende chiudano i battenti per sempre?
Dal punto di vista economico ci saranno ripercussioni negative importanti, tanto che iniziamo già a intravedere episodi di disagio sociale. Attualmente molti imprenditori temono di non poter riprendere la loro attività. Penso a settori come il manifatturiero, che ha problemi di liquidità, ma più in generale ad artigiani e negozianti. Il contesto, purtroppo, è estremamente difficile anche negli altri Paesi. Da questo punto di vista, le industrie bergamasche faticheranno per via della forte vocazione all’export. Ciò che chiediamo è che si mettano in campo gli strumenti per mantenere in vita il tessuto economico, salvaguardandolo nella sua interezza e senza privilegiare alcuni settori o solo grandi aziende.

Twitter: @albmarzocchi

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