Guardo fuori dalla finestra, il mio appartamento si affaccia su una piazza con giardinetti, ora vi dico che cosa vedo: un ragazzo in bicicletta con la mascherina e un quadro sotto il braccio, tre persone in giro con i rispettivi cani, due bambini sull’altalena e una mamma, vedo delle macchine, non molte, e l’autobus fantasma alla fermata.

Il cielo non riesce a essere azzurro, ma c’è un presentimento celeste che si impiglia tra i rami degli alberi. Ora vi dico quello che non riesco a vedere ma che immagino. Immagino un vecchio che non riesce più a respirare da solo, lo immagino intubato, lontano da tutti gli affetti più cari, mi sembra di vedere le sue mani, nodose e magre, abbandonate sul letto, le palpebre sono chiuse per proteggere gli occhi dalla vista di quell’inferno così bianco, così puro, così gelido e sterilizzato. Mi sembra di sentire i suoi ricordi catapultarsi in un sussurro nella memoria: un vela bianca d’estate, una donna che gli sorride, un bambino che si rotola sull’erba e ride.

Siamo qui con te, tutti. Non ti lasciamo solo, ogni ricordo sembra dire questo: non ti lasciamo solo. A volte è un sussurro, altre volte un grido. Tu hai sete e ognuno di noi ti porta una goccia d’acqua dal tuo passato, non morirai di sete. La memoria è la madre della mente, l’ultima madre. E il vecchio intubato trova il coraggio di aprire gli occhi, un raggio di
sole scheggia il ventilatore, fotosintesi dell’abbandono, fiorisce un addio lieve come un sospiro, in fondo anche l’addio è solo un saluto, un arrivederci colto dal disincanto.

Ecco quello che vedo e quello che immagino. Allora per non impazzire di tristezza faccio lo scemo del villaggio globale e m’invento un tutorial quarantena.

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