Nelle convulse giornate che si susseguono tra bollettini di morti e salvati, che forse ai più anziani tra noi ricordano la guerra, sia concesso aprire un varco per porre la dovuta attenzione su categorie di lavoratori che rinnovano, in assoluto silenzio e giorno dopo giorno, un patto con la propria coscienza di uomini e donne che di mestiere lavorano in presidi socio sanitari, oggi più che mai ad alto rischio.

Vorremmo, quale impresa sociale insieme ad altre mille realtà come la nostra, evidenziare come, in questa Italia il cui fronte più sotto pressione è quello sanitario, esistano lavoratori e lavoratrici di cui non si parla mai: categoria di operatori che ogni mattina si devono occupare direttamente o indirettamente di fare funzionare quella macchina della salute che è rappresentata da ospedali, residenze per anziani, strutture riabilitative psichiatriche o per disabili, comunità terapeutiche.

Quei servizi a cui non è concesso in un momento come questo il riposo o la paura, perché al fine di permettere all’intero paese di potere superare questa contingenza non deve venire meno la funzione protettiva che questi servizi sono chiamati ad espletare nei confronti di decine di migliaia di pazienti: proteggere i fragilissimi anziani nelle residenze assistite oppure i disabili dalla loro incapacità di mantenersi a distanza per finire a tanti soggetti, a cavallo tra la psichiatria e la dipendenza, che presentano situazioni a rischio per la loro deficitaria difesa immunitaria.

Questo esercito delle retrovie (ci sia perdonata l’immagine bellica che però crediamo sia la più efficace) composto da professionalità che raramente vengono intervistate o conoscono la luce dei riflettori si compone di migliaia di persone, uomini e donne, nascosti dietro acronimi neutri quali Oss (operatore socio sanitario), oppure qualifiche generiche: manutentore o addetto alle pulizie o, basilare anch’esso, addetto alla mensa.

Questo insieme di qualifiche non rende sufficiente giustizia al difficile compito che quotidianamente devono affrontare. A partire dall’entrare in ambienti oggettivamente a rischio: ambienti che per peculiarità della popolazione che li abita sono pervasi, anche in condizioni di normalità, da virus o malattie. Ambienti in cui alla sofferenza quotidiana si somma la paura di contagi che provengono dall’esterno. Ambienti in cui mascherine e ritualità igieniche rafforzate e ripetute ossessivamente per il coronavirus assumono l’immagine più di esorcismo che di razionale protezione necessaria per rimanerne indenni.

A questi lavoratori che la grande stampa non racconta, ma il cui venire meno fermerebbe l’attività febbrile di medici ed infermieri, crediamo vada tributato il massimo degli onori. Lavoratori generici che supportano gli specialisti e che contribuiscono, con eguale ostinata serietà, a fare sì che la organizzazione della salute non crolli in mille pezzi. L’umiltà di certi mestieri sia, in un momento come quello attuale, elevata a nobiltà dell’impegno, in ragione del fatto che questo impegno è, oggi, particolarmente gravoso.

Se vi sono figure straordinarie, e ve ne sono in quantità nelle nostre strutture sanitarie, che questo bellissimo aggettivo sia esteso anche a loro. Non crediamo di peccare di retorica se portiamo alla attenzione della pubblica opinione ciò che in qualsiasi struttura che si dedica alla salute dell’altro è patrimonio condiviso. Uomini e donne, professioni e istruzioni diverse, fanno fronte comune rendendo queste settimane meno angosciose per noi, poveri mortali, che da dietro una finestra stiamo attendendo la fine di questa spettrale atmosfera. Nel pantheon laico di questo paese ci si ricordi anche di loro.

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