Non avevamo ancora smaltito l’indignazione per gli starnazzamenti di Christine Lagarde, aspirante emulatrice di Maria Antonietta (l’incosciente regina di Francia che suggeriva la distribuzione di brioche al popolo affamato quale sostitutivo del pane), che subito l’ineffabile Albione ci ha fatto pervenire un messaggio persino più inquietante: la dichiarazione del premier Boris Johnson sulla pandemia in corso, da affrontarsi rigorosamente senza muovere un dito.

Ovvero la conclamata “terapia del gregge”, in base alla quale si otterrà l’immunizzazione dei sopravvissuti dopo l’inevitabile sterminio dei più deboli. La declinazione demenziale della sopravvivenza darwiniana come giustificazione pseudo scientifica del non voler sprecare sterline in soccorso di poveracci. Un passo avanti verso la catastrofe umanitaria dopo settimane di negazionismo del Coronavirus da parte del collega d’oltreoceano: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Difatti Trump e Johnson non sono accomunati soltanto da un evidente feticismo del capello (e magari dal ricorso allo stesso parrucchiere). Ben più significativa è la comune improntitudine nel palesare esplicitamente un tratto della cultura anglosassone che predecessori meno spudorati avevano mantenuto sottotraccia: il profondo disprezzo della solidarietà in quanto valore fondativo del contratto sociale.

Questo per dire che lo scandalo a seguito delle scriteriate dichiarazioni del Primo Ministro inglese non è casuale. È soltanto “voce dal sen fuggita” di un abito mentale profondamente radicato sulle due sponde dell’Atlantico, da secoli. Il pregiudizio per cui David Ricardo, nei suoi Principi di economia politica, si scagliava contro ogni forma di assistenza sociale che – a suo dire – avrebbe trasformato “la ricchezza e la potenza in miseria e debolezza”; qualche anno prima lo anticipava da Boston Benjamin Franklin. Il quale, non limitandosi a indicare nell’alcolismo la soluzione ottimale allo scopo di fiaccare i nativi americani, dichiarava che meno si fa per i poveri “meglio riusciranno a cavarsela”.

E la predicazione dell’odio sociale verso i cosiddetti “ceti pericolosi” può continuare: Francis Galton, cugino di Charles Darwin e inventore della pseudo-scienza Eugenics, proporrà addirittura la sterilizzazione dei “poveri inutili”, colpevoli di infettare la razza inglese con i loro vizi e l’incapacità “costituzionale” di inserirsi nel mondo del lavoro.

Uno slittamento mentale verso l’insanabile biforcazione dei destini nazionali da imputarsi al protestantesimo versione puritana (la condizione di abbienti come segno della grazia divina) oppure – sulla scia di Michel Foucault – a una sorta di “xenofobia interna”? Che risalirebbe alla conquista normanna dell’Inghilterra e la creazione di una società in cui convivevano due etnie distinte dal censo: i signori erano i conquistatori, mentre lo stato di sottoposti competeva agli anglosassoni sottomessi. Fatto sta che Benjamin Disraeli, primo ministro della regina Vittoria, ammetteva di governare due nazioni: “l’Inghilterra dei ricchi e quella dei poveri”.

Sentimenti disgregatori e impietosi, spregiatori di umanità, che questa epoca dominata dalla primazia dell’avidità ha riportato clamorosamente allo scoperto. Sotto forma di un’ideologia giustificativa dell’indifferenza civile (Margaret Thatcher dichiarava “la società non esiste”), che va diffondendosi come “americanizzazione del mondo”. E gli anticorpi di antiche lezioni interiorizzate nella cultura europea continentale – dalla carità predicata nel cristianesimo cattolico (il Gesù del Discorso della montagna prometteva ai poveri “il regno dei cieli”) alla benevolenza illuministica – stanno gradatamente indebolendosi.

È forse un caso se l’ex presidente francese François Hollande in privato irrideva i meno abbienti chiamandoli “gli sdentati” e Matteo Renzi ha definito “sfigati” gli esodati?

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