Un sospetto, ricercato dalla polizia e fuggito in Italia per promuovere l’omosessualità. Così in Egitto viene descritto Patrick George Zaky, il ricercatore di 27 anni che si trova dall’8 febbraio in detenzione preventiva nella città di Mansoura, dove è previsto che resterà per almeno 15 giorni.

Come sappiamo, Zaky era partito da Bologna, dove frequenta un master presso l’Università, per trascorrere un periodo di vacanza nella sua città natale, Mansoura, in Egitto. Una volta atterrato all’aeroporto del Cairo, la notte tra il 6 e il 7 febbraio, è scomparso per 24 ore. Nessuno, compresi i suoi genitori, è stato inizialmente informato del suo arresto. Poi è ricomparso sabato 8, negli uffici della procura di Mansoura, che nel pomeriggio hanno disposto i consueti 15 giorni di detenzione preventiva. Rinnovabili per mesi, se non per anni, senza che le indagini facciano passi avanti. Perché non c’è nulla su cui indagare.

I capi d’imputazione – “diffusione di false notizie che disturbano l’ordine sociale”, “incitamento a protestare per minare l’autorità dello Stato”, “incitamento alla destituzione del governo” – sono un classico della persecuzione giudiziaria delle autorità egiziane contro avvocati, studenti, attivisti, giornalisti, blogger, ricercatori, ecc.

Zaky non è un fuggitivo scappato in Italia perché ricercato dalle autorità del suo paese per attività criminali. È uno studente, che ha frequentato per mesi con profitto un master di grande prestigio, in Italia: dove è probabile che – come succede a tanti egiziani che sono all’estero – sia stato seguito e controllato dagli apparati di sicurezza del Cairo.

Il governo italiano deve rendersi conto che può fare la differenza sul destino di Zaky: chiedendo con fermezza il suo rilascio, presenziando all’udienza del 22 febbraio e a quelle che eventualmente dovessero seguire.

Zaky è un prigioniero di coscienza. Amnesty International ha lanciato un appello per chiedere la sua liberazione.

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