Valpreda innocente, Pinelli assassinato, la strage è di Stato”. Questo è slogan che scandivano i manifestanti nei primi anni Settanta contro politici e poliziotti. La strage è quella del 12 dicembre 1969, una data che ha segnato un prima e un dopo nella storia di questo Paese. E tre giorni dopo Giuseppe Pinelli, militante anarchico del Circolo Ponte della Ghisolfa, precipita dal quarto piano della Questura di Milano: la stanza era quella del commissario Luigi Calabresi.

In quel giorno di cinquant’anni fa si materializza la criminalità di una classe politica che, per conservare il potere di fronte all’avanzata del “comunismo”, è pronta a tutto. Anche a lasciare morti sul suo percorso pur di non veder messa in discussione la sua leadership. Quella strage non è una pagina oscura, non è la “morte della repubblica”, è un capitolo chiaro: meglio i morti che un cambiamento.

E di morti, negli anni successivi, ce ne sono stati molti. Per mano soprattutto della destra, ma anche della sinistra. Un gioco perverso: la destra aveva attaccato, la sinistra doveva rispondere. Anzi, doveva innalzare il livello di scontro. Una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana. In questa ottica, la bomba di piazza Fontana ha segnato e scritto la storia.

Che è anche una storia infinita. Dai “pazzi criminali” si passa ai nazisti e fascisti colpevoli: accomunati sul banco degli imputati, verranno assolti tutti. E i colpevoli? Non esistono. Poi rispuntano responsabilità dei nazi-fascisti quando i principali colpevoli non possono più essere condannati. Il 17 agosto 1996 vengono alla luce centocinquantamila fascicoli dei servizi segreti, abbandonati alla periferia di Roma, dove ci sono le prove di occultamenti e depistaggi fatti da uomini degli apparati statali. Tutto inutile: altri tre processi, ancora una volta, mandano tutti assolti.

Una vera commedia all’italiana, se non fosse una tragedia. Una tragedia che vede negli attentati del dicembre 1969 il momento centrale di una strategia che doveva portare a un regime autoritario, ma che è stata gestita dai più alti organi dello Stato per mettere fuori gioco gli avversari politici e per creare un clima di paura che perpetuasse la centralità della Democrazia cristiana e dei suoi alleati. In questo senso la bomba di Piazza Fontana è l’analizzatore della società italiana: mette a nudo il ruolo di ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia.

Ricostruire quell’avvenimento, che vede le sue premesse nelle bombe del 25 aprile e del 9 agosto 1969, significa dunque individuare l’essenza nascosta dello Stato italiano. Perché non si è di fronte a organismi deviati dai loro compiti. Questa è una grande favola che i mezzi d’informazione hanno cercato di raccontare quando le responsabilità dei “servitori dello Stato” non erano più occultabili.

La realtà, infatti, è molto più semplice e sconcertante: “La presenza di settori degli apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata ‘deviazione’, ma normale esercizio di una funzione istituzionale”, scrive il giudice Guido Salvini, all’epoca titolare dell’ultima indagine su Piazza Fontana.

Allora si comprende come il termine “strage di Stato” assuma una valenza che va al di là dello slogan politico, perché individua invece una verità inconfutabile, nonostante le sentenze di assoluzione.

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