Scrivo dall’iconico Provincial di Mar del Plata, il buen retiro atlantico dell’alta borghesia argentina che tra gli anni Quaranta e i Cinquanta ha immaginato qui la sua Belle Epoque in differita, progettandola sul modello di Bristol e Biarritz. Dal secondo Peron in poi s’è sempre più tramutata in un’abbruttita schiera di cemento predisposta all’assalto di colonie di estivanti e oggi ospita il maggior festival del cinema dell’America Latina.

Innanzi, l’oceano, “immobile luccichio di uno specchio incommensurabile. Movimento immobilizzato, la passione dell’eterno…”, annotava Witold Gombrowicz nelle sue scapigliate pagine marplatensi. Immagato da questa placida e sovrana inquietudine, ancora m’accompagna quando, con Alejandro e Eugenio Monjeau, inappuntabile regista del mio calendario di sala, varchiamo le cortine dell’Ambassador per tentare Terrence Malick.

Dico “tentare” perché, dopo le ultime esperienze, son più che scettico. Malick, a dire il vero, quasi non lo reggo. Un esordio magistrale e poi un ritorno eclatante sulle trincee pacifiche de La sottile linea rossa. Poi, per quel che mi riguarda, poco o pochissimo, compreso il tanto acclamato Tree of Life. Che parte col caleidoscopio cangiante dello spazio profondo: immagini interstellari di una potenza inaudita, metamorfiche, grandiose e perfette, per poi – malamente – ricondurre cosmologia e cosmogonia all’ethos umano e ai suoi dissidi, provvidenzialmente intesi, indirizzando così l’intera riflessione al rapporto tra fede e coscienza religiosa con focus ultimo – è l’ossessione del regista – sulla teodicea.

Messaggio alquanto catechistico: centro di supernove e galassie è il senso morale della vita umana – principio antropico nella sua peggior versione, quella teologica. Mentre ci sarebbe stato quantomai bisogno del contrario: ossia mostrare come proprio uno sguardo cosmico annienti il senso di ogni nostra scelta o azione, come nel magistrale – e sublime proprio perché senza speranza – Melancholia di von Trier. To the Wonder invece ribadisce il concetto: animulae vagulae la cui unica redenzione arriva dall’alto sotto forma di evangelica investitura di luce.

Con questi presupposti, che cosa si poteva sperare? Invece A Hidden Life m’è parso un quasi-capolavoro. Il fanatismo cristologico di Malick rimane immutato, ma, contrariamente agli esempi citati, la grazia non sopravviene con melodrammatica accondiscendenza, o, come in To the Wonder, per la labile indigenza psichica di soggetti cinematograficamente affettati, afflitti, più che dall’angoscia, dalla sua retorica; al contrario: risalta ambiguamente nella potenza – e nella sofferenza – di una tragedia oscura, estenuante e senza vie d’uscita.

In A Hidden Life la fede non è soluzione ma dramma e, a tratti, persino perdizione, collocandosi sulla linea che da San Paolo conduce al Karl Barth dell’Epistola ai romani, e poi a Bonhoeffer. Quest’ultimo perché la sua Resistenza e resa è la meditazione, disperata e altissima, di un uomo che, come Franz Jägerstätter – il contadino austriaco la cui vita, nascosta perché foucaultianamente in-fame, è narrata da Malick – si prepara alla morte nelle carceri naziste. E trova forza e requie estremizzando le conseguenze della fede.

Ma più che la trama davvero sensazionali sono le vertiginose – tanto da atterrire ma anche suscitare la mente all’Incommensurabile – riprese montane (girate a Cima Sappada!), l’oscillante sorvolo della camera che s’alza intimisticamente dal basso (“agostinismo visuale” in Malick indefinitamente ricorrente), il terror panico delle scene hitleriane di repertorio, montate con sacrale accompagnamento classico, come di nera liturgia.

Anche stavolta Malick mi è lontanissimo. L’idea che l’abisso del nichilismo sia superabile con un mistico abbandono alla fede, con la preghiera dell’uomo disperato che s’inginocchia innanzi alla rivelazione, mi pare a un tempo ingenua e inutilmente esaltata, tanto che basterebbe mezza pagina nicciana per togliercela d’incomodo. Eppure nel film la potenza della negazione è tale, e il pathos così distruttivo e irragionevole che tutto diviene estremo, irrisolvibile, commovente come una passione fiamminga o una pietà di Barlach.

Persino l’insistenza del protagonista, che è santa perché rifiuta ogni compromesso col mondo scegliendo la sovrana libertà del martirio, seduce con la sua ligia mitezza. Nel calvario dell’uomo giusto non si subodora, cioè, il narcisismo risentito, la cattiva coscienza invaghita surrettiziamente del potere che squalifica la stucchevole ipocrisia dei “buoni” che il Cristianesimo instancabilmente sobilla.

In gioventù Malick seguì con dedizione una carriera filosofica che lo vide lavorare a Oxford su Kierkegaard, Heidegger e Wittgenstein, sotto la supervisione del mediocrissimo Gilbert Ryle, i cui esigui orizzonti sicuramente non potevano accogliere le abissali propensioni del futuro regista, cui dobbiamo peraltro anche una traduzione in inglese di Dell’essenza del fondamento. Diremo allora che vale per il suo cinema, almeno quando riesce, la fatidica formula heideggeriana secondo cui “chi pensa in grande deve altrettanto errare in grande”. Così di A Hidden Life non ci convincono i presupposti teologici ma l’Immane che impietosisce e sgomenta.

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