Forse il 19 ottobre sapremo come Boris Johnson riuscirà a rispettare la recente legge Benn, che gli impone di chiedere all’Unione europea un rinvio della Brexit – se non riuscirà a stringere un accordo entro quella data -, e a fare contemporaneamente quanto sta promettendo da settimane ai suoi sostenitori, cioè uscire dall’Unione europea il 31 ottobre con o senza accordi.

Le cose si sono complicate negli ultimi giorni perché un gruppo di parlamentari e attivisti anti-Brexit, giustamente perplessi e increduli di fronte alle contraddizioni di Downing Street, ha chiesto alla Court of Session scozzese di emettere un’ingiunzione che imponga al governo di attenersi alla legge Benn e di non compiere atti che ne vanifichino gli scopi. Il giudice di prima istanza ha risposto negativamente alla richiesta. La necessità di un’ingiunzione, per la corte, non è da considerarsi attuale: infatti l’Advocate General per la Scozia ha sottoposto ai magistrati una dichiarazione secondo cui il Primo Ministro intende rispettare la legge. Non ci sono quindi buone ragioni per non credergli e imporgli di fare ciò che già intende e promette di fare.

Il diniego è stato accolto con soddisfazione dai giornali pro-Brexit, ma una lettura più attenta del parere di Lord Pentland, il giudice che ha risposto alla petizione del gruppo anti-Brexit, non sarà probabilmente motivo di ulteriori festeggiamenti. È chiaro che Lord Pentland ha considerato con la massima serietà “le dichiarazioni specifiche e dettagliate riportate nelle memorie scritte presentate alla corte sotto la responsabilità professionale di coloro che rappresentano il Primo Ministro e il governo e con l’autorità dell’Advocate General per la Scozia” che “ha indicato chiaramente e inequivocabilmente l’intenzione del Primo Ministro di rispettare gli obblighi cui è tenuto in forza della legge del 2019” e che “naturalmente è anche lui un officer of the court“, quindi un organo di giustizia soggetto a obblighi legali ed etici.

Come dire che Boris Johnson, tramite l’Advocate General Lord Keen of Elie, ha preso un impegno molto serio, non con i giornalisti di un tabloid o con un gruppo di elettori da galvanizzare, ma di fronte a un tribunale, che crede e si aspetta che lui rispetti l’impegno. Come dire che, in caso contrario, le conseguenze potrebbero essere anche molto gravi, sia per Lord Keen, che si è esposto personalmente e professionalmente, che per Boris Johnson. Il Primo Ministro ha dunque evitato un’ingiunzione del tribunale, ma a costo di un’autoingiunzione che lo impegna altrettanto seriamente.

Gli autori della petizione, che di Johnson non si fidano neanche un po’, hanno comunque proposto appello alla Inner Court che ha già fornito il suo parere firmato dal Presidente, Lord Carloway. Anche la Inner Court, come già la Outer Court, ritiene prematuro l’invio di un’ingiunzione: il governo britannico e l’Ue potrebbero ancora concludere un accordo e il Parlamento potrebbe ancora approvare un’uscita senza accordo.

Solo se non si verificassero queste possibilità, il 19 ottobre il Primo Ministro sarà tenuto a richiedere una proroga all’Unione. Fino a quel momento, qualsiasi cosa Johnson dichiari in pubblico o in privato, in un contesto politico, non costituisce una violazione di legge e le corti non avrebbero motivo di intervenire.

Se però, al momento e nelle condizioni previste dalla legge Benn, Johnson non inoltrasse la prevista richiesta di estensione, allora i firmatari della petizione avrebbero il diritto di ripresentarsi davanti alla corte per ottenere un’ingiunzione che ordini al Primo Ministro di ottemperare alla legge Benn in tempi rapidi e definiti, scaduti i quali, la corte considererà l’opportunità di autorizzare un funzionario a firmare la lettera con la richiesta di rinvio che il Primo Ministro non avesse ancora inoltrato.

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