Nel 1995, alle fine del conflitto nell’ex Jugoslavia, il compianto Alexander Langer scriveva un articolo, profetico per certi versi, dal titolo “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”. L’Europa non è morta, ma di certo porta ancora addosso le cicatrici della vergogna, per non avere impedito il massacro di Srebrenica e di altri eccidi balcanici.

A volte la Storia concede una seconda occasione, ma una volta sola e se c’è un momento in cui l’Europa potrebbe riscattarsi dalla viltà mostrata allora, quello è adesso. Il criminale attacco della Turchia contro i curdi, con il beneplacito del presidente della “più grande democrazia del mondo” grida vendetta. Non può passare così, come un fatto ineluttabile. Il popolo curdo ha già sofferto molto, ha lasciato sul terreno molti, troppi morti per respingere i folli dello Stato Islamico. I curdi erano lì, donne e uomini, in prima linea, al fianco di americani e russi, ma di loro quasi non si parlava. Eppure erano lì a morire anche per noi, per impedire l’avanzata del fronte jihadista.

E ora? Sconfitto quel nemico, cosa fa Erdogan? Li colpisce alle spalle, approfittando dell’irresponsabile menefreghismo egoistico di Donald Trump. Li attacca pesantemente, causando vittime tra i civili. Vuole eliminarli, una soluzione finale alla turca, questo vuole.

Che fare? Non credo certo che siano le armi la soluzione, ma almeno ritirare gli ambasciatori europei da Ankara e interrompere ogni rapporto politico e commerciale con la Turchia. Isolare quel dittatore che ha già soffocato ogni barlume di democrazia e che ora vuole perpetuare un genocidio nei confronti del popolo curdo. È noto che l’Europa intrattiene importanti relazioni commerciali, ma non si possono sacrificare donne, bambini, uomini in nome del profitto.

Lo abbiamo già fatto, e siamo stati noi italiani a farlo. Era il 1998 e il leader del PKK (il partito dei lavoratori curdo) Abdullah Öcalan giunse a Roma, accompagnato da Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista. Öcalan, perseguitato dai servizi segreti turchi, si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere asilo politico, ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il governo guidato da Massimo D’Alema a estradarlo. Un atto, questo, peraltro non previsto, in quanto in Turchia era ancora in vigore la pena di morte. Inoltre in Italia la concessione dell’asilo spetta alla magistratura, che lo riconobbe a Öcalan, ma troppo tardi. Avrebbe ancora potuto essere salvato dal cancelliere tedesco Gerhard Schröder, che probabilmente non volle creare tensioni tra i molti immigrati turchi in Germania. Öcalan è ancora oggi incarcerato in Turchia.

Vogliamo di nuovo nascondere la testa sotto la sabbia? Vogliamo ancora voltare le spalle a quelle persone che hanno messo in gioco le loro esistenze, per combattere i tagliagole dell’Isis? Oppure del terrorismo islamico ci occupiamo solo quando ci tocca da vicino? Questa è una battaglia di civiltà: lo era contro gli integralisti di Al Baghdadi e lo è di nuovo contro il crudele dittatore turco. Vogliamo esserci in questa civiltà, oppure anche questa volta ne usciamo di nascosto, per poi riappropriarcene a cose fatte, nascondendo i cadaveri sotto il tappeto della retorica?

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