E così, dopo qualche anno di malattia, se ne è andata Jessye Norman (1945-2019). La sua voce profonda, morbida, potente, che qualcuno ha definito al contempo “scura e luminosa”, ci ha regalato momenti di intensa commozione quando, con i direttori più famosi e le orchestre più blasonate, interpretava le opere di Wagner, Verdi, Purcell, Bartók, Berlioz, Bizet, Puccini. Né era meno grande nelle altissime creazioni liederistiche. Indimenticabili, fra i tanti capolavori da lei affrontati, gli struggenti, celestiali ultimi Quattro Lieder di Richard Strauss.

Potremo risentire ancora la sua voce nei cd e su Youtube, e gioiremo della bellezza e dei doni musicali che continuerà a dispensarci. Nondimeno sappiamo che qualcosa è finito per sempre. La morte di un artista non chiude solo una porta: ci sottrae un mondo. Niente sarà uguale a prima. Vale per il cantante come per il regista, per lo scultore o per il pianista, per l’architetto o per l’attore. Ti fa vacillare, ti strappa l’equilibrio, ti sottrae i punti di riferimento. Càpita ora per Jessye, è stato così un anno fa per la mirabile Montserrat Caballé (1933-2018), con la sua voce diafana e tersissima.

Cantanti assai diverse, stazza imponente per ambedue, carisma indiscutibile, hanno segnato un’epoca, incarnato uno stile. Anche chi non ha mai varcato la soglia di un teatro lirico ha imparato a conoscerle: le parole dei giornali, le immagini, i commenti dei social le hanno portate in ogni casa, le hanno rese vicine, familiari. Tempo fa, che Luciano Pavarotti (1935-2007) dovesse lasciarci lo sapevamo tutti, ma ne scacciavamo l’idea. Quando accadde, ci rendemmo conto che non avremmo mai avuto un altro come lui. Tenori meravigliosi ce ne sono e ce ne saranno sempre, ma di certo sono diversi da “big Luciano”.

Ogni grande artista è per definizione un unicum. Quando lo perdi, lo perdi per sempre: si conclude un universo d’arte. Chi ci darà più Claudio Abbado (1933-2014)? il suo gesto nitido e imperativo, lo sguardo fulmineo, il volto nervoso, negli ultimi anni scavato dalla malattia, sono ancora davanti ai nostri occhi, nel nostro ricordo. I direttori d’oggi – alcuni davvero splendidi – potranno magari superarlo in bravura, ma non ne faranno sbiadire l’immagine. Essa rimarrà vivida dentro di noi.

Da pochi giorni, in tarda età, ci ha lasciati Paul Badura Skoda (1927-2019), pianista amatissimo dagli intenditori: il suo Mozart e il suo Schubert sono stellari. Tanti pianisti calcano oggi la scena: giovani eccezionali, tecnica agguerrita, fraseggio magnifico. Ma non faranno dimenticare l’aplomb del gentiluomo viennese. Paul continuerà a vivere nella mente, nel gusto, nella sensibilità di chi lo ha apprezzato.

Quando un artista ci abbandona, è come se il cielo s’intristisse: ti rincresce non averlo praticato di più, non aver ascoltato fino in fondo il suo messaggio, non aver approfittato appieno della sua presenza nel mondo. La morte dell’artista ti fa sentire nell’animo quanto vicine siano la caducità e l’eternità. Per questo ti sbalestra e ti frastorna, per questo ti rende però ancora “più umano”.

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