Per ora è solo un ritardo, ma potrebbe trasformarsi in un nuovo caso diplomatico. Gli Stati Uniti non hanno ancora emesso i visti per permettere al presidente iraniano Hassan Rohani, al ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif e al resto della delegazione della Repubblica islamica di partecipare nei prossimi giorni all’Assemblea generale dell’Onu a New York. Lo riferisce l’agenzia statale iraniana Irna, secondo cui il governo di Teheran sarebbe pronto ad annullare la sua presenza al vertice se i visti non arriveranno nelle prossime ore. L’Irna ha anche riferito che Teheran ha inviato a Washington una nota formale attraverso la diplomazia svizzera per avvertire che qualsiasi eventuale azione ostile troverà “un’immediata risposta“.

Secondo il calendario ufficiale, Rohani parlerà il 25 settembre dinanzi all’Assemblea plenaria. Un eventuale annullamento della sua partecipazione di risulterebbe clamoroso, anche tenendo conto delle aperture più volte manifestate dal presidente americano Donald Trump a un possibile faccia a faccia con il suo omologo iraniano proprio in quella sede. Nei giorni scorsi, il ministero degli Esteri di Teheran aveva ipotizzato ostacoli solo alla presenza di Zarif, colpito questa estate dalle sanzioni Usa. Durante la sua ultima visita a New York a luglio per il forum Economico e Sociale (Ecosoc), gli spostamenti del capo della diplomazia iraniana erano già stati limitati dalle autorità Usa alle sedi Onu e alle residenze diplomatiche del suo Paese.

Sul tavolo tra gli Usa e l’Iran resta la questione dell’accordo sul nucleare iraniano raggiunto sotto la presidenza di Barack Obama nel 2015 dal quale Washington si è ritirata unilateralmente. “Se gli americani vogliono davvero negoziare, devono porre fine a tutte le pressioni contro l’Iran, perché avere colloqui sotto una ‘massima pressione’ non è possibile”, ha detto Rohani parlando in una riunione del suo gabinetto. “Anche se le pressioni degli Stati Uniti hanno colpito la vita del popolo iraniano, queste pressioni hanno raggiunto il loro picco e presto non avranno più effetto. È impossibile fermare la resistenza delle nazioni che hanno difeso i propri Paesi per tanti anni”, ha aggiunto il capo del governo di Teheran, citato dall’Irna.

Secondo Rohani, “è strano che i nemici nella regione non abbiano ancora capito il potere di questa resistenza”, come “quello degli Hezbollah libanesi, di Hashd al-Shaabi in Iraq e della grandezza del popolo siriano e yemenita, ma invece attacchino loro e i Paesi che li sostengono”. Queste “politiche guerrafondaie” hanno “solo portato insicurezza in Iraq, Afghanistan, Siria e nel Golfo Persico. Perché non portate la pace invece delle armi, e non aiutate i popoli?”, ha concluso Rohani.

In questo contesto, ha aggiunto Rohani durante la riunione del gabinetto, l’Arabia Saudita dovrebbe vedere l’attacco alle strutture petrolifere della società nazionale petrolifera Aramco come un avvertimento per porre fine alla sua guerra nello Yemen: “Non hanno colpito un’ospedale, non hanno colpito una scuola, non hanno colpito il bazar di Sanaa. Hanno colpito semplicemente un centro industriale per mettervi in guardia. Traetene la lezione”, ha detto il presidente iraniano.

Fin qui la lettura politica dell’accaduto. Perché sull’attacco aereo sferrato contro le strutture petrolifere saudite la versione di Teheran non cambia. Il ministro della Difesa iraniano, il generale Amir Hatami, ha negato qualsiasi coinvolgimento: “Respingendo le accuse circa un ruolo dell’Iran nell’operazione, (Hatami, ndr) ha detto che la questione è molto chiara: c’è un conflitto tra due Paesi”, lo Yemen e l’Arabia Saudita, riporta l’agenzia Tasnim.

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