Ormai da anni nelle considerazioni annuali del Governatore della Banca d’Italia non manca un riferimento alla “presunta” necessità che gli istituti di credito più piccoli si aggreghino per realizzare economie di scala e diventare più solidi a livello patrimoniale.

Tutto ciò nonostante i fatti dimostrino che le crisi più gravi e “sanguinose” (per gli azionisti e i risparmiatori) degli ultimi anni abbiano riguardato banche che tanto piccole poi non erano (Mps, Popolare Vicenza, Veneto Banca, Etruria, Carichieti, Cariferrara, Carige, ecc.)! La politica? Cosa fa la politica nel frattempo? Uno zerbino della lobby finanziaria.

Negli ultimi anni ormai ha perso la forza e le competenze per definire una propria visione, magari non da imporre (come pure sarebbe logico!), ma perlomeno da confrontare e, nel caso, contrapporre al pensiero dominante delle cosiddette autorità di vigilanza bancarie, ossia Bce e Banca d’Italia, le quali hanno approfittato di questa debolezza per “debordare”, anzi “straripare” dal loro ruolo istituzionale, che è appunto di controllori e non già di strateghi del sistema bancario e finanziario.

La politica, dicevamo, prona al pensiero dei Draghi e dei Visco di turno, ha dapprima (governo Renzi) imposto di fatto l’aggregazione alle Banche di credito cooperativo (Bcc) e poi (governo Conte), attraverso un emendamento della Lega al cosiddetto Decreto crescita, creato le condizioni per un’aggregazione tra le banche Popolari, soprattutto al Sud (dal Molise in giù), attraverso benefici fiscali tanto rilevanti quanto indiscriminati e che si prestano agevolmente a strategie quantomeno “disinvolte”.

Veniamo al dunque.

Secondo indiscrezioni ricevute da un top manager di una piccola banca sana ed efficiente (che quindi soffre l’imposizione di dover pagare le inefficienze altrui), la Banca popolare di Bari, che ha chiuso il bilancio 2018 con circa 420 milioni di euro di perdite e ha visto dimezzato il proprio patrimonio di vigilanza rispetto all’anno precedente, starebbe per definire l’aggregazione con una piccola Popolare del Sud (con sede in Campania e anche questa in perdita) al fine di recuperare le imposte differite sulle perdite (che, come abbiamo visto, sono notevolissime), trasformandole in credito di imposta, come consentito dalla norma citata fino a un massimo di 500 milioni di euro.

Di fatto, una fusione senza alcuna logica industriale con una piccola banca Popolare, peraltro operante in un territorio in cui la Popolare di Bari è già ampiamente presente, consentirebbe a quest’ultima di scaricare sulla collettività i costi delle proprie inefficienze, in virtù di una norma scritta male e al solo scopo di venire incontro alle indicazioni del pensiero dominante delle autorità di vigilanza.

Si fonderebbero quindi due debolezze. Che speranze ci sarebbero per i poveri risparmiatori della Banca popolare di Bari – già obbligati ad acquistare le azioni che non riescono più a vendere, neppure a prezzi stracciati – di vedersi restituire quanto subdolamente carpito? Poche (eufemismo)!

Non abbiamo dubbi che, dopo i disastri degli ultimi anni, l’attività di controllo di Bce e Bankitalia diverrebbe più agevole e, forse, più efficiente con poche banche di grandi dimensioni. Ma siamo sicuri che un sistema bancario del genere sia adatto al tessuto economico italiano costituito, per la gran parte e soprattutto al Sud, da attività imprenditoriali piccole e piccolissime?

E, soprattutto, siamo sicuri che spetti alle autorità di vigilanza “disegnare” l’assetto del sistema bancario italiano ed europeo, con una politica ridotta a “mera esecutrice” e che, senza più consapevolezza strategica, corra il rischio di emanare normative incomplete e approssimative, come quella citata, che consentano a cattivi amministratori di far pagare ai contribuenti il prezzo della loro incompetenza?

Eppure milioni di italiani hanno votato il M5s perché nel suo programma aveva inserito tante azioni utili a guarire la malafinanza.

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