Il salario minimo sarà fissato prevedendo l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Come previsto dall‘articolo 39 della Costituzione, finora inattuato. Una scelta che richiederà, come primo passo, l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale. In parallelo occorre “individuare il giusto compenso per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento che solitamente affliggono i più giovani professionisti”. E al tempo stesso ridurre il peso di tasse e contributi sulle buste paga – il cosiddetto cuneo fiscale – ma “a totale vantaggio dei lavoratori” come auspicato dai dem. Sono gli obiettivi prioritari, sul fronte del mercato del lavoro, inseriti nel programma del governo giallorosso e individuati da Giuseppe Conte nel suo discorso programmatico alla Camera.
Occorre “individuare una retribuzione giusta”, ha premesso il premier parlando a Montecitorio, “garantendo le tutele massime a beneficio dei lavoratori, anche attraverso il meccanismo – tra l’altro previsto nel nostro dettato costituzionale e mai applicato – dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”. Di conseguenza, ha annunciato, “occorre procedere finalmente all’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale, sulla base di indici rigorosi”.
L’obiettivo quindi è attuare l’articolo 39 della Carta in base al quale i sindacati registrati “possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Un dettato rimasto lettera morta perché le maggiori sigle fino a pochi anni fa erano decisamente contrarie. Ma la cui attuazione appare urgente perché negli ultimi anni sono proliferati i “contratti pirata” firmati da piccoli sindacati che prevedono trattamenti retributivi molto inferiori a quelli siglati da Cgil, Cisl e Uil. L’esecutivo intende a quanto sembra seguire questa strada, una “terza via” rispetto a quelle previste dal disegno di legge sul salario minimo del Movimento 5 stelle firmato dalla neo ministra del Lavoro Nunzia Catalfo e da quello del Pd depositato da Tommaso Nannicini. Che prevedono entrambi come base salariale minima quella prevista dai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati più rappresentativi.
Il ddl Catalfo dispone in generale che una retribuzione “proporzionata e sufficiente” non possa essere inferiore a 9 euro al lordo dei contributi. Ma specifica che in prima battuta bisogna far riferimento al livello previsto dal “contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e la zona” in cui si svolge il lavoro e stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro “più rappresentative sul piano nazionale”. In presenza di “una pluralità di contratti collettivi applicabili”, alcuni dei quali possono essere meno vantaggiosi per i lavoratori, si stabilisce che il trattamento economico “non può essere inferiore a quello previsto per la prestazione di lavoro dedotta in obbligazione dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa“, oltre a non poter scendere sotto i 9 euro l’ora. Per la misura della rappresentatività si rimanda ai criteri messi nero su bianco in un accordo del gennaio 2014 da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil.
Il testo di riferimento per il Pd è invece il disegno di legge depositato da Nannicini dopo la vittoria alle primarie di Nicola Zingaretti, in sostituzione di un precedente ddl a prima firma Mauro Laus che prevedeva una paga oraria minima di 9 euro netti tout court. Il principio base anche in questo caso è che si deve far riferimento ai “contratti collettivi nazionali stipulati dalle associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, individuate come tali ai sensi della presente legge”. La messa a punto dei criteri sarebbe affidata al Cnel – sopravvissuto al referendum costituzionale renziano – presso il quale dovrebbe essere istituita una “commissione paritetica per l’individuazione dei criteri di maggiore rappresentatività”. Solo per chi rimane scoperto dai Ccnl (per esempio gli addetti della gig economy) la stessa commissione dovrebbe fissare un salario minimo di garanzia.
Stando alle parole di Conte, la scelta è stata fatta e passa per una legge sulla rappresentanza. Rimane però da sciogliere il nodo dell’incrocio tra salario minimo e taglio del cuneo: un aumento del costo del lavoro peserebbe sui bilanci delle imprese con il rischio che queste si rifacciano sui consumatori aumentando i prezzi. Per questo nei piani di Luigi Di Maio c’era dichiaratamente un parallelo esonero dei datori di lavoro dal versamento del contributo destinato a finanziare la Naspi, pari all’1,6%, almeno sui contratti a tempo indeterminato. Idea rispedita al mittente dai sindacati. E alla fine nel programma annunciato da Conte è finita sì la riduzione delle tasse sul lavoro, ma “a totale vantaggio dei lavoratori” come auspicato dal Pd.