C’è qualche motivo per festeggiare la nascita del governo cosiddetto giallorosso? A parte che si tratterebbe di un governo giallo-rosé, ma forse sì. Quanto meno, c’è qualche speranza.

Inutile girarci intorno infatti: il M5S rappresenta per il Pd l’ultima occasione di dire “qualcosa di sinistra”. Vero è che il governo gialloverde ha segnalato una certa acquiescenza grillina nei confronti dei temi cari alla Lega, a partire dalla gestione della questione migratoria, ma ciò dipende da una certa malleabilità del Movimento, che vive costantemente nell’ambiguità: zero contenuti, contenitore vuoto, oppure qualche idea (magari anche ben confusa)? Insomma, era indubbia la colonizzazione dell’immaginario grillino da parte di Matteo Salvini.

Ha gongolato così per un anno l’elettorato grillino di destra. Ché non è vero, come sostengono gli stessi grillini, che non esiste più destra e sinistra. Su certe cose esiste. Ma non è (non è tanto e non è solo) la questione migratoria, sulla quale il centrosinistra si è perso spesso dietro alle sirene di una sorta di moralismo e umanitarismo pietoso e vuoto, laddove essere di sinistra significava indagare le ragioni dello sfruttamento anche alla luce del contesto internazionale.

Certo, meglio un po’ di moralismo dell’immoralismo salviniano, tutto proteso ad alimentare quel pubblico che stava in attesa di farsi spiegare che la questione migratoria e la questione sociale si saldavano (falso). Ma destra e sinistra esistono ancora nell’approccio alle questioni del lavoro, della precarietà, delle diseguaglianze, della redistribuzione. E dunque se il M5S dimostra di avere a cuore tali questioni, riattivando quella componente di sinistra che è stata intravista da molti dei suoi elettori, ex votanti progressisti delusi, allora c’è da sperare che davvero possa nascere un governo di centrosinistra come non se ne vedevano da tempo.

Infatti negli ultimi anni il Pd si è perso dietro ai governi istituzionali, di “responsabili”, “del presidente”, che significavano tutti più o meno la stessa cosa: austerità e fedeltà cieca ai diktat europei. Essere di sinistra significa invece mettere in discussione quei diktat, a partire dal pareggio di bilancio, per continuare poi col tema del taglio della spesa sociale per far quadrare i conti, come direbbe la massaia. Far quadrare i conti, un mantra di quella componente liberista del Pd di cui si spera, con la nascita del governo giallorosso, di vedere la fine. O meglio, di vederne la ricollocazione politica con l’approdo dove quella componente dovrebbe stare: nel centrodestra.

Se questo è, allora un motivo per brindare è l’uscita dal Pd di Carlo Calenda, il self-appointed leader “progressista” che pensa alla redistribuzione come a una sorta di riparazione compassionevole, o che mette al centro del discorso politico l’impresa e non il lavoro, o che ancora ritiene che tutto ciò che porta il bollino dell’Ue sia indiscutibile e degno di un atto di fede. Siamo naturalmente consapevoli che nel Pd Calenda non è l’unico ad avere quelle idee: il Pd è quelle idee. Tuttavia, la speranza è che si possa tornare a parlare di lavoro e diseguaglianze senza doversi sorbire il sermone domenicale di chi ti dice che il mondo è cambiato e, pontificando dalle terrazze della Roma bene, ti invita a rimboccarti le maniche ché tanto il dentifricio nel tubetto non ce lo metti più.

E invece una sinistra del nuovo millennio deve pensare al compimento della modernità, ovvero a realizzare quelle promesse non mantenute (sviluppo, autonomia individuale, redistribuzione, lotta alla povertà, estensione dei diritti, pace, tutela dell’ambiente, etc.) che erano stare considerate l’architrave del progetto politico moderno.

Spes contra spem: difficile pensare che il solo governo giallo-rosé riattivi tutto ciò. Ma se intanto Calenda e l’area liberista del Pd si fanno un partito di centro pronto ad allearsi con Silvio Berlusconi, c’è da stappare.

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