L’ultimo colpo di scena arriva il 2 agosto. La Commissione territoriale di Siracusa, l’organismo del Ministero dell’Interno preposto a decidere sulle richieste d’asilo, ha riconosciuto a Medhanie Tesfamariam Behre lo status giuridico di rifugiato politico e può lasciare il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) della città siciliana. Ha in mano un passaporto dell’Unhcr ed è felicissimo: “È la fine di un incubo durato troppo a lungo”, ha detto al Guardian, giornale che per primo ha raccontato la sua paradossale vicenda, il cui capitolo finale è ancora tutto da scrivere.

La storia di Behre non è quella di un rifugiato politico qualunque. Comincia il 24 maggio 2016, quando le forze dell’ordine del Sudan lo arrestano in un bar di Khartoum, in collaborazione con la National Crime Agency inglese. Pensano che sia Medhanie Yedhego Mered, alias Il Generale, uno dei più pericolosi trafficanti di uomini operanti in Libia tra il 2013 e il 2016. Il ragazzo viene condotto in Italia, dove lo attende un processo per traffico di esseri umani. L’indagine che porta al suo arresto, condotta dalla Procura di Palermo, nasce dal secondo filone di Glauco, l’inchiesta scaturita dopo la strage di Lampedusa dell’ottobre 2013. Quando arriva in Italia, il Viminale, allora guidato da Angelino Alfano, ritiene sia stato raggiunto il più importante risultato di sempre nel contrasto all’immigrazione irregolare. Un successo anche per il dispositivo di collaborazione tra marine militari Eunavfor Med, concepito nel 2015 proprio allo scopo di intercettare e far arrestare i boss del traffico di esseri umani (e ormai in concluso).

L’entusiasmo però dura poco. L’uomo che scende la scaletta dell’aereo a Ciampino non assomiglia per nulla all’uomo ben più maturo che gli identikit degli inquirenti individuano come Il Generale. Il Guardian è il giornale che per primo rende pubblica la posizione dell’avvocato dell’imputato, Michele Calantropo: è avvenuto uno scambio di persona, in carcere al Pagliarelli di Palermo a rispondere per i crimini di Mered c’è una persona che nulla ha a che fare con il gruppo di trafficanti. Per dimostrare la sua tesi, l’avvocato produce durante le udienze diverse prove. Le più importanti sono il test del Dna dell’imputato con la madre di Behre, la testimonianza della moglie di Mered, Lidya Tesfu, che non riconosce l’uomo come suo marito, la controperizia del saggio vocale che mette a confronto Mered e Behre nelle telefonate intercettate dalla procura, ritenute tra gli indizi di colpevolezza più importanti dell’intera inchiesta. La Procura però insite nel ritenerlo Mered, anche se nel corso delle udienze allarga i capi d’imputazione a reati che riguardano il favoreggiamento e non solo il traffico.

Il primo grado del processo per il capo dei capi del traffico di migranti alla fine è stato impiegato soprattutto per stabilire se la persona alla sbarra fosse davvero Il Generale. La sentenza del 12 luglio 2019 è chiara: Behre è stato vittima di uno scambio di persona, non è un trafficante ma un falegname eritreo. Il verdetto però si chiude comunque con una condanna a cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione del cugino, aiutato a raggiungere la Libia (dove Behre però non è mai stato). La difesa farà appello: Michele Calantropo, ha annunciato di voler arrivare a togliere qualunque ombra dalla reputazione del suo assistito.

Nonostante la sentenza di primo grado preveda l’immediata scarcerazione per Behre, quello stesso giorno il ragazzo viene portato nel Centro per il rimpatrio di Caltanissetta, dove potrebbe attendere fino alla conclusione dei tre gradi di giudizio del suo processo. L’ennesimo limbo: in quanto eritreo, Behre non può essere rimpatriato, visto che l’Eritrea non è considerato un Paese sicuro e Behre rischierebbe di essere torturato. In quanto condannato, anche in via non definitiva, secondo il decreto Sicurezza voluto dal ministro Salvini deve stare in un Cpr. A quel punto, però, l’avvocato Calantropo deposita la domanda d’asilo per Behre, nonostante il Riesame il 16 luglio abbia respinto l’istanza di scarcerazione. La decisione della Commissione territoriale alla fine è positiva e rende Behre titolare di tutti i diritti previsti per un rifugiato. Il prossimo capitolo si aprirà con il processo d’appello.

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