Il contratto di Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale (noto anche come Apprendistato di I livello) è un strumento che possiamo considerare di politica attiva del lavoro, che permette all’Apprendista (un giovane under 24) di lavorare e allo stesso tempo seguire un percorso formativo per il conseguimento di una qualifica o di un diploma professionale. La durata del contratto non può essere superiore, per la sua componente formativa, a tre anni se finalizzata alla qualifica e a quattro anni nel caso di diploma professionale. L’azienda ha l’obbligo di prevedere un impegno formativo formale di 400 ore annue che possono essere interne o esterne all’azienda.

Detto così appare piuttosto semplice, ma in realtà lo sviluppo di un progetto formativo e quindi di un percorso condiviso tra impresa ed ente formativo non è semplice. Altrettanto complesso è l’iter normativo necessario per assumere minori all’interno di un’azienda. Questi rappresentano a grandi linee lo “scoglio” maggiore per assumere apprendisti nella propria azienda. Nel secondo caso, è necessario spesso disporre di un consulente del lavoro preparato in materia, che sappia esattamente quali siano le difficoltà e che abbia esperienza di contratti di questo genere.

In realtà, mi è bastato confrontarmi con alcuni stakeholder per comprendere come l’Apprendistato di primo livello si sia trasformato in qualcosa di diverso, quello che io chiamo “Apprendistato-interinale”. Il nome allude al fatto che lo strumento presenta già nella sua costruzione teorica alcune “pecche” che hanno implicitamente cambiato i comportamenti degli attori coinvolti, in primis gli enti formativi (nella maggior parte dei casi parliamo di Centri di formazione professionale).

In tal senso, appare piuttosto evidente che la costruzione di un percorso e le successive attività di monitoraggio siano dei veri e propri “servizi” offerti dai Centri di formazione alle aziende. Infatti, le strutture formative si sono letteralmente specializzate in contratti di Apprendistato di I livello. Questo significa che si offre alle imprese un “pacchetto” che comprende l’Apprendista, l’iter amministrativo e la definizione del percorso formativo, il che comporta il rischio di riproporre il classico on-the-job visto con il percorso di Apprendistato professionalizzante, dove la parte formativa – diciamo senza girarci intorno – era molto, ma molto carente.

Questo spiega come sia possibile che amici di imprese di piccolissime dimensioni (come, ad esempio, ristoranti a conduzione familiare o gelaterie) abbiamo al loro interno degli Apprendisti, scelti non tanto per un “vocazione” alla formazione del giovane, ma attratti principalmente dal costo del lavoro vantaggioso, sia in termini di salario che di contributi.

Non c’è dubbio che il nuovo apprendistato potrebbe contrastare la dispersione scolastica. Tuttavia, si presenta il rischio di aver creato una nuova forma di rapporto di lavoro più che un percorso di formazione condiviso. Questo ci porta al problema centrale del ragionamento: come fare a migliorare il contratto di Apprendistato?

Innanzitutto aumentando la base salariale degli Apprendisti, decisamente troppo bassa. Uno strumento del genere, se non più sperimentale, rischia di creare un effetto spiazzamento a danno di altri contratti nel mercato del lavoro. Il datore tenderà a prendere Apprendisti che stanno frequentando il diploma professionale e quindi avranno almeno svolto le ore di alternanza scuola-lavoro obbligatorie (quindi con un minimo di esperienze pregresse), piuttosto che un 30enne formato e preparato ma con un salario normale svantaggioso.

È bene tener presente che lo strumento può avvalersi di anni di sperimentazioni e dibattiti. Più che una modifica del contratto, sarebbe opportuno stilare presso Anpal una sorta di “certificazione” o di valutazione diffusa (tipo social media à la “TripAdvisor”) delle aziende che ospitano giovani Apprendisti, in modo da valorizzare il più possibile quelle dove l’elemento di responsabilità sociale dell’impresa sia più elevato.

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