In principio era Malagrotta, 240 ettari. La discarica più grande d’Europa, nella periferia ovest della città di Roma. Un sito su cui si sono concentrate polemiche ambientaliste, inchieste giudiziarie e anche una procedura d’infrazione dell’Unione Europea. Per anni, a cavallo degli ultimi due decenni, si è cercato vanamente di trovare un sito alternativo alla “buca” di proprietà di Manlio Cerroni, il “Supremo”, il “re della monnezza” romana. Il quale, guarda caso, era proprietario e concessionario di gran parte delle aree ritenute idonee. Qui hanno fallito sindaci, governatori e perfino commissari governativi. E più i politici non decidevano, e più la buca si allargava, fra deroghe e ampliamenti. Finché nell’ottobre 2013, il sindaco Ignazio Marino, di concerto con l’allora neo presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, non fu costretto a cedere alle pressioni di Bruxelles e fermare definitivamente i conferimenti, nonostante da 6 anni il Colari di Cerroni ricordi al Comune di Roma come siano “altri 200.000 metri cubi disponibili”. La “chiusura” fu accolta trionfalmente dal Pd. Ma già serpeggiava un quesito: “E ora i rifiuti dove li portiamo?”. Bella domanda. Anzi “la” domanda. E la risposta è rimasta ancora inevasa. È quello l’esatto momento in cui la città di Roma non ha potuto più nascondere la polvere sotto il tappeto, semplicemente perché il tappeto non c’era più.

Ecco una ricostruzione delle tappe che hanno portato a questa crisi (e le ipotesi sul campo per risolverla).

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