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Frankie Hi-Nrg Mc racconta “il rap e tutto il resto”: “Cosa odio dell’hip-hop? L’onnipresente mancanza di rispetto per le donne, l’omofobia”

Con il suo nuovo libro Frankie Hi-Nrg Mc intreccia la sua biografia con la storia dell’hip hop, raccontata in modo avvincente con aneddoti e curiosità, a partire dai suoi quattro elementi: il dj, il ballo, il rap e i murales

di F. Q.

Guagliu’ io faccio la mia cosa, sappiatelo. Non è un cautelarmi ma un avvisare.”, così Francesco Di Gesù alias Frankie Hi-Nrg Mc spiega la foto di Damiano Andreotti che lo ritrae, con le mani in alto, sulla copertina del suo primo libro, “Faccio la mia cosa” (Mondadori), il cui sottotitolo è: “Il rap e tutto il resto”. E “Faccio la mia cosa” è anche il titolo di una canzone contenuta nel suo primo album, Verba manent (BMG, 1993). “Sintetizza bene l’approccio – spiega il rapper – che ho avuto nel fare musica e anche questo libro. Un approccio che mi ha portato a conoscere e ad affrontare il rap, la produzione musicale, il computer, la grafica e la regia dei video. A guidarmi è sempre stata la curiosità.” Frankie Hi-Nrg Mc intreccia la sua biografia con la storia dell’hip hop, raccontata in modo avvincente con aneddoti e curiosità, a partire dai suoi quattro elementi: il dj, il ballo, il rap e i murales. Bellissima l’idea di inserire alla fine di ogni capitolo una foto e un codice QR che ci rimanda direttamente ai video delle canzoni che il rapper torinese ha scelto per noi. Una playlist che insieme alle parole, asciutte e dirette, ci porta a spasso per il Bronx, facendoci sentire le voci, gli ‘inciuci’, il sudore e lo slang di chi, per la prima volta, ha dato voce al ghetto. La storia finisce dove tutto inizia, con la pubblicazione del suo primo singolo, Fight da faida, considerata da Rolling Stones la migliore canzone rap della storia della musica italiana. In mezzo c’è tutto il resto, un’adolescenza da nerd insieme ad amici geniali, gli avvenimenti più importanti della storia d’Italia e l’incontro con il rap. Un libro imperdibile per chi ama e per chi vuole sapere cos’è l’Hip Hop.

Cosa ti ha spinto a raccontarti e a raccontare la storia del rap?
“Come ti sei avvicinato al rap?” è la domanda più frequente che mi hanno fatto. Siccome ho sempre dato risposte parziali, mi son detto: proviamo a raccontarla tutta ‘sta storia. Poi tra i motivi c’è anche la scarsa considerazione che si dà alla storia del rap, così nel mio piccolo ho provato a dare tre appunti per far capire, a chi oggi affronta questo genere, da dove è partito e perché si è ridotto in questo stato.

I tuoi genitori sono i veri cprotagonisti del libro, come mai la scelta intima di parlarne?
Perché sono coprotagonisti del mio genoma e tra l’altro sono un loro atto unico (sorride). Sono responsabili del mio successo come essere umano, della mia educazione. Mi hanno dato gli strumenti per crescere ed essere me stesso, dandomi fiducia anche a fondo perduto, come quando ho iniziato a fare rap lasciando gli studi. È stato difficile ma sono sempre stati dalla mia parte.

Sei tra i pionieri del rap italiano, eppure dai tuoi colleghi sei sempre stato considerato un outsider. Cosa pensi della nuova scena, ti senti parte?
Ma per me sentirmi parte della scena in generale nella storia è sempre stato un po’ difficile. La scena sicuramente è cambiata, quella dei ‘90 si è frammentata e quella successiva contiene del bello e del brutto; ci sono mc apparsi dopo i duemila come Fibra, Salmo, Marracash, Ensi che hanno contenuti, talento e forma. Il mio non è snobismo, faccio la mia cosa, sono fuori perché più che essere riconosciuto da gruppi preferisco essere riconosciuto dalle persone. Sono osceno (sorride).

Il rapper che senti più affine e il più lontano nella scena italiana?
Mi viene da dire Caparezza, con cui ho maggiori affinità in tutti i sensi, difficile stabilire quelli più lontani.

Quando sentiremo nuove canzoni?
Prima del disco ci sarà uno spettacolo, in scena porterò una sintesi del libro, il racconto della mia vita intervallato dai video dei contributi musicali che ho sparso nel libro grazie ai QR-code.

Cosa ami e cosa odi dell’hip-hop?
Amo i principi che l’hanno ispirata per come sono stati declinati dalla Zulu Nation di Afrika Bambaataa e come sono stati espressi dai grandi mc della storia. Odio la violenza in generale: l’onnipresente mancanza di rispetto per le donne, l’omofobia. L’energia e la violenza dei Public Enemy, per esempio, ha un senso e un significato completamente diverso da quella degli N.W.A. anche se i loro primi dischi li ho amati. È un po’ come il fuoco: può riscaldarti e bruciarti. Ci sono elementi carichi di energia, dipende da chi li gestisce, anche perché i rapper riverberano il loro potere nelle vite e nelle coscienze soprattutto di giovani.

Non vivi per il rap, ami distrarti con tante cose, dalla fotografia alla regia di videoclip, fino a fare l’attore e ora anche lo scrittore. Altri campi che ti piacerebbe attraversare?
Mi piacerebbe fare un film.

Magari un film tratto da questo libro?
Sarebbe divertente, mi si apre il problema del casting. A chi faccio fare me stesso da adolescente (sorride).

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