Coazione a ripetere. Secondo il dizionario Treccani «tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze». Politicamente, una pulsione irresistibile all’inutilità, che tende a trasformarsi in dissipazione e distruttività. Sempre a propria insaputa.

Ciò per dire che il Pd avrà pure cambiato gruppo dirigente, ma nei suoi riflessi condizionati permane irresistibile l’attitudine a reiterare scelte e comportamenti finalizzati al harakiri. E questo sarebbe un problema suo, se non avesse drammatici rimbalzi sull’intero quadro politico; sulle possibili uscite dalla crisi del sistema-Paese.

Uno stallo solipsistico a danno dell’interesse generale. Tendenza che risale alle origini del soggetto, nato da un maldestro assemblaggio che aveva come scopo primario l’obiettivo inconfessato di assicurare perpetuazione nelle posizioni di carriera a un manipolo di reduci da svariate esperienze di partito. Indifferenti a ruoli politicamente utili per un disegno positivo, strategie finalizzate al dichiarato spirito di servizio. Attitudine acuita dall’arrivo sul ponte di comando di Matteo Renzi. Un giovane arrampicatore incoronato ennesimo lider maximo sulla base della promessa che le sue mosse (chiacchiere/trovate) avrebbero assicurato ai seguaci il mantenimento dei loro vantaggi gerarchici; la perenne sottomissione del corpo elettorale al dominio della corporazione del potere fattasi casta. In sostanza: una riproposizione del blairismo fuori tempo massimo e la promessa dell’efficienza di governo ottenuta eliminando controlli e contrappesi democratici (referendum 2016).

Lunga la strada per liberarsi da quel mix doroteo-craxiano al servizio del modello di partito a cricche e cordate. Ma ora salta fuori un nuovo assetto che ricicla la succitata coazione a ripetere riproponendola in salsa piaciona. Sempre confermando i due vizi di fondo: l’ottica da corporazione, sicché il tesoriere Zanda propone maggiori emolumenti parlamentari malamente motivati come valorizzazione delle Camere, e il richiamo castale (stare dalla parte del privilegio, da cui si ambisce la cooptazione), per cui Nicola Zingaretti corre a Torino a sostegno di Sergio Ciamparino, locale referente dell’establishment, nella difesa del progetto Tav come segnale ad alto valore simbolico (visto l’accertata inutilità dell’opera) e rifiuta la patrimoniale per non sembrare dalla parte dei poveracci; soprattutto, la permanente allergia a pensare politica. E qui si viene al punto: l’attuale governo gialloverde mostra evidenti segni di involuzione, dopo aver prodotto il danno immenso di legittimare l’oscurantismo reazionario e le devastazioni civili della Lega salviniana.

Oggi le crepe prospettano una rottura della coalizione che richiederebbe iniziative politiche per favorire ribaltoni e interrompere la corsa verso il baratro. Ergo, fornire sponda ai Cinquestelle che stanno aprendo gli occhi sul pasticcio in cui si sono cacciati. Ossia tornare a far politica, dopo che il renzismo latente aveva spinto il Pd post elezioni 2017, in cui era risultato la seconda forza in Parlamento, a mettere in ghiacciaia i propri voti vagheggiando una catastrofe che magari avrebbe riportato al governo proprio il rieccolo Renzi. Tra l’altro, davvero un bel senso patrio!

Nei quasi due anni successivi il non contrastato degrado del Paese si è specchiato in questo Pd inutile a sé e agli altri. Ora che si crea una nuova possibilità di prendere una qualche iniziativa, il Pd che fa? Resta sul divano a ingozzarsi di popcorn mentre continua la generale corsa a ramengo. E la sua presenza resta fantasmatica.

Appunto, coazione a ripetere che spara a casaccio accuse di populismo e non evita per sé quella assai più concreta di nullismo.

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