Riccardo Morpurgo, 64enne ingegnere e imprenditore edile di Senigallia, è morto suicida venerdì scorso all’interno della sua azienda in crisi da tempo. Prima di compiere l’estremo gesto ha lasciato una lettera, un messaggio d’addio alla sua famiglia e un atto di accusa forte contro le banche e gli amministratori pubblici che gli hanno negato ogni possibilità. Di seguito un frammento di quanto scritto: “Mi rivolgo dunque ai responsabili, assolutamente irresponsabili, degli istituti di credito, ma anche ai pubblici amministratori e a chi, abusando del suo infimo potere, si arroga il diritto, tralignando la verità, di divertirsi giocando con la necessità, le ansie, le emozioni del prossimo, senza capacitarsi (FORSE) che il suo divertimento può essere recepito tragicamente da chi lo subisce, e ancora a coloro che subiscono questa iniqua situazione avvolti nella loro assordante apatia e indifferenza o, peggio, a coloro che la aggravano con la loro cinica e supponente cupidigia”.

C’è da restare increduli. Devastati dalla crudeltà delle parole, del gesto e dell’atteggiamento troppo spesso caratterizzante degli istituti di credito. Un comportamento falso e intimidatorio, spietato, amorale. Ti stringono la mano con la destra mentre mantengono nella sinistra una pietra, e al minimo gesto di mancata sottomissione ti colpiscono. Una stretta di mano che perde il sapore del segno di pace per diventare un pugno di mosche, la nobiltà di un gesto dissipata nel Dna dei bancari/banchieri, formati e allenati nella mancanza di stima e rispetto nei clienti, plasmati nella “forma” di una deontologia etica in sostanza vuota.

Il lato oscuro della vicenda di Senigallia sta nel capire che gli istituti di credito sono governati da dirigenze e operatori consapevoli di interpretare e applicare in maniera particolare e atipica la moralità. Abitudine costruita, che traspare dal loro linguaggio atto a mettere da parte qualsiasi possibilità di una discussione etica. Non esiste il giusto o lo sbagliato, ciò che è corretto o ciò che è scorretto: esiste solo ciò che porta profitto o che può portare ostacoli legali. Se c’è una strada per mettere d’accordo i due elementi la si prende e la si porta a compimento, non c’è nulla che li può fermare, nemmeno una vita, nemmeno una morte.

Stiamo parlando di un sistema intriso di amoralità, non esiste l’immoralità, perché quest’ultima presuppone concetti come il Bene e il Male e il perseguirli o meno. In banca tali concetti non entrano nei processi di valutazione. In questa mentalità, chi svolge il proprio lavoro nel migliore dei modi è colui che riesce a non farsi influenzare dalle emozioni che può riscontrare nella disperazione sulla faccia di un cliente e lasciarla dilagare, permettere che questa si impossessi di lui, che lo consumi.

Ma vediamo la questione da un altro punto di vista. Mi chiedo: nel mondo reale, un simile atteggiamento potrebbe essere considerato reato? Si potrebbe parlare di istigazione o aiuto al suicidio? Il codice penale italiano tramite l’articolo 580 recita: chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.

Nel caso di Riccardo Morpurgo, i banchieri e gli amministratori pubblici potrebbero aver commesso un reato? Un pubblico ministero potrebbe forse portarli a processo se solo ciò che è sancito come “illecito” da parte della giustizia civile trovasse per la lobby bancaria un responsabile che paghi la pena. Mi chiedo perché non funzioni così. Mi domando se in questo modo si potrebbero “risvegliare coscienze intorpidite e animi accecati”.

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