40 morti in diretta Facebook sono l’ultimo stadio del terrorismo che arriva nelle nostre case, quasi esistesse uno spargimento di sangue “partecipativo”. La strage di Christchurch, nella tranquilla Nuova Zelanda, è l’ennesimo segnale della follia omicida che trova nei social network uno pericoloso strumento di amplificazione. La violenza inaudita va a caccia di “like”, ipnotizzando chi seduto alla tastiera – invece di avvisare le Forze dell’Ordine di quel che sta per accadere – rimane incollato dinanzi allo schermo aspettando che lo show abbia inizio.

L’atroce operazione è stata annunciata con le stesse dinamiche con cui si fertilizza il mercato dei consumatori per il lancio di un nuovo prodotto o si cerca di irretire gli appassionati cinefili in vista dell’arrivo in sala di una determinata pellicola. Una serie di messaggi sulle affollate piattaforme digitali di aggregazione ha calato – in una realtà con ben altre finalità e destinazioni – il classico “stay tuned” con cui si invita il pubblico a sintonizzarsi in tempo per non perdersi nemmeno una frazione infinitesimale di quel che verrà presentato.

Testi e immagini di rara eloquenza hanno determinato un barbaro volantinaggio virtuale e l’immaturità degli utenti ha fatto sì che si innescasse un ulteriore “passaparola” con le fin troppo naturali e sovente altrettanto irresponsabili condivisioni online.

Le promesse di morte non erano soltanto uno slogan, uno dei tanti pronto a mescolarsi nel consueto strepitio di chi su Internet urla di tutto e cerca di alzare i toni per prevalere a tutti i costi. Le foto dei caricatori da mitragliatrice con le dediche ai protagonisti di atti violenti e di azioni cruente ricordavano le bombe d’aereo che già nel secondo conflitto mondiale venivano istoriate con frasi “augurali” indirizzate a chi sarebbe stato colpito dal cielo. Proprio quel genere di rappresentazione grafica è inequivocabile indizio che la guerra è cambiata e ognuno può combattere la sua, che la morte di innocenti è alla portata di tutti, che non c’è bisogno dell’Enola Gay per togliere il futuro a chi è nel mirino, che chiunque può essere l’artefice di una maledetta malefatta anche senza aver eserciti e flotte aeronavali.

Abituati a sentire i comunicati di chi gestisce la pubblica sicurezza che invitano la gente a restare in casa per non esporsi ad un determinato pericolo, stavolta ci si è trovati di fronte alla polizia neozelandese che chiede alla popolazione di Internet di non diffondere i filmati e le istantanee dello sconfortante episodio. La propagazione di quei dolorosi frammenti purtroppo è stata pressoché istantanea e la deflagrazione mediatica ha raggiunto ogni angolo del mondo ancor prima che i tradizionali mezzi di informazione riuscissero a scaldare i propri motori. La macchina della paura è sicuramente alimentata da byte e bit e ogni dispositivo di comunicazione (computer, tablet o smartphone, poco importa) è un megafono in cui sbuffa l’imprudenza e l’inarrestabile desiderio di protagonismo.

In queste circostanze (e magari ancor prima che si verifichino) se si ha voglia di parlare lo si deve fare con chi è preposto a scongiurare catastrofi simili a quella di Christchurch. Considerato che i gestori dei social non riescono a impedire blitz mediatici di questo tipo e che le polizie continuano a essere in ritardo per oggettive difficoltà operative (e di lì il classico refrain “inseguite quella macchina” che cristallizza il non poter mai giocare d’anticipo), in questo scenario il “quisque de populo” deve trasformarsi in una sorta di sensore umano e dare il proprio contributo alla sicurezza di tutti. Mai come in questo caso il cittadino non può e non deve girarsi dall’altra parte.

Parallelamente si dovrebbe impegnare chi – forte di una qualsivoglia leadership, politica e non – adopera Facebook e qualsiasi altra analoga “soap box” su cui salire per fare proclami e discorsi. La violenza verbale delle arringhe è un modello da abbandonare, perché il cattivo esempio è il primo ad essere seguito e purtroppo il recettore di certi comportamenti cercherà di fare ancor più di quel che ha visto o sentito con inevitabili spirali che giungono a performance allucinanti. Il “si può fare di più” delle canzoni diventa immediatamente un inedito “si può fare di peggio”.

Mi rendo conto che l’approccio gandhiano non produce consensi, ma l’istigazione alla moderazione potrebbe essere un ottimo analgesico per scongiurare gesti sconsiderati o addirittura carneficine inenarrabili. Su uno di quei caricatori c’era anche il nome di Luca Traini, “famoso” – non pensavo in Nuova Zelanda – per essere quell’ex candidato leghista che sparò per le vie di Macerata ferendo sei stranieri. Proviamo a rifletterci. Forse ne vale la pena.

Articolo Precedente

Nuova Zelanda, la polizia sperona un’auto e arresta un uomo dopo la strage in moschea costata la vita a 49 persone

next
Articolo Successivo

Attentato Nuova Zelanda. “Luca Traini”, “Migration compact”, “Kebab remover”: le scritte sui fucili usati dal terrorista

next