Qualche tempo fa ad un convegno mi è capitata tra le mani una penna con la scritta: “La democrazia è donna”. Ed è vero. Perché non può esservi davvero democrazia se si continua ad ignorare che le discriminazioni di genere, in ogni loro declinazione, impattano duramente e intaccano il pieno esercizio dei diritti fondamentali nel loro complesso. Le donne sono ancora ampiamente sottorappresentate nei luoghi decisionali, sia in politica che nel mondo economico. Per citare solo un dato tra i tanti, in sei Paesi dell’Unione europea le donne rappresentano meno del 20% dei componenti dei Parlamenti. Non si può pensare di fare buone politiche pubbliche che siano in grado di rispondere alle esigenze della società tutta, tenendo semplicemente un occhio chiuso, quello delle donne. E questo vale per ogni settore ed ogni livello di intervento. Inoltre, secondo i dati della Commissione europea, il divario salariale tra donne e uomini in Europa si attesta attorno al 16%, e quello pensionistico sale a più del doppio. Sono dati inaccettabili, ed è chiaro che la piena parità e il contrasto ad ogni forma di violenza di genere non possano che passare anche dalla piena indipendenza economica delle donne.

Eppure l’Unione europea ci offre una base giuridica forte per promuovere la piena parità. All’articolo 8 del TFUE la parità di genere emerge come uno degli obiettivi primari dell’Unione, cui mirare in tutte le sue azioni. Si chiede quindi di non considerare le politiche per la parità di genere come una sorta di capitolo a parte, come un compartimento stagno, ma viene attribuito all’Unione il preciso compito di eliminare le diseguaglianze e di promuovere la parità di genere in tutte le sue politiche, integrando in ciascuna la dimensione di genere (è il cosiddetto gender mainstreaming). Ed è così che lavora il Parlamento europeo, grazie all’impegno e monitoraggio costante della nostra Commissione FEMM per la Parità di genere. Ma purtroppo non vediamo lo stesso sforzo da parte dei governi nazionali, alcuni dei quali, compreso il nostro, stanno anzi pericolosamente arretrando sui diritti delle donne.

In questi anni il Parlamento europeo ha preso posizioni forti contro le discriminazioni di genere. Abbiamo spinto ed ottenuto l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere, per dare un segnale forte e fare pressione sugli Stati europei che ancora non l’hanno ratificata. Ci siamo battuti per difendere un nuovo obiettivo specifico sulla parità di genere tra i 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile al 2030, adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015, impegnando tutti gli Stati che ne fanno parte ad azioni concrete contro violenza e discriminazioni e per arrivare alla piena emancipazione delle donne. Abbiamo chiesto con forza un congedo di maternità pienamente retribuito di 20 settimane, un miglior bilanciamento tra tempi di vita e lavoro, così come una direttiva che garantisca l’equilibrio di genere nei Consigli di amministrazione delle società quotate in borsa in Europa, scontrandoci con le resistenze dei governi.

Insomma, la battaglia per la parità di genere è già una battaglia europea. E non è un caso che le spinte nazionaliste ed autoritarie in tanti Paesi europei abbiano portato alla formazione di una vera e propria, quanto paradossale, “Internazionale dei nazionalisti” che con la sua retorica d’odio costante ha eletto a nemico non solo i migranti, ma anche le donne, scagliandosi contro i nostri diritti. Un’Internazionale dell’odio cui le donne hanno reagito insieme, con le partecipatissime Women’s March che hanno portato milioni di persone in tante piazze del mondo, da Washington a Londra, dove ricordo di esser rimasta colpita nel vedere tante diverse realtà della società civile e politiche marciare insieme per i diritti delle donne e contro ogni discriminazione e violenza. La stessa aria che abbiamo respirato a Roma il 24 novembre scorso nella bella manifestazione lanciata da Non Una di Meno, che ha mobilitato oltre 200.000 persone. E sarebbe importante rivedere una forte mobilitazione anche a Verona, contro il Congresso Mondiale della famiglia che si terrà a fine marzo, dove si sono dati appuntamento alcuni protagonisti di quell’Internazionale dell’odio che vorrebbe farci tornare indietro di decenni sulla parità e sui diritti.

Ed è così che le donne e i movimenti femministi insegnano molto su come cambiare l’Europa. Come possiamo fare pressione sui governi europei che stanno impedendo di fare quei passi avanti indispensabili per dare risposte condivise a sfide comuni, sulla parità di genere come su altre sfide cruciali per il futuro: quella migratoria, quella climatica, quella per la giustizia sociale e fiscale? Servono piazze più europee, servono partiti più europei, corpi intermedi ed associazioni più europee. Che queste battaglie le facciano insieme allo stesso livello, oltre i confini nazionali.

Con un esempio concreto, bisogna fare proprio come abbiamo fatto accompagnando le donne polacche in una giusta battaglia contro una legge medievale che cercava di togliere alle donne il diritto di decidere sul proprio corpo, criminalizzando e sostanzialmente cancellando il diritto all’aborto.

Quando le donne polacche sono scese a migliaia in piazza per lo sciopero in nero, la #czarnyprotest, non le abbiamo lasciate sole, ma l’abbiamo resa una vera e propria protesta europea, grazie all’adesione e al supporto di tante e tanti in tutt’Europa, e la pressione internazionale è stata così forte che quella pessima legge è stata fermata.

Questo bisogna fare, come stanno facendo da tempo i movimenti femministi che scendono insieme in tante piazze europee, non solo l’8 marzo (“lotto tutto l’anno”), per scioperare e per ribadire con forza la necessità di sradicare un sistema distorto, patriarcale, che nel limitare il pieno esercizio dei diritti delle donne limita la stessa democrazia. Se l’attacco ai nostri diritti arriva su scala transnazionale, battiamoci insieme allo stesso livello, perché saremo più forti.

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