Il calo continuo della pubblicità televisiva riduce gli investimenti che le tv immettono nella programmazione (generalmente si cerca di tutelare dai tagli almeno la prima serata). Ciò causa lo scemare della qualità dei programmi: questo comporta la fuga del pubblico dal piccolo schermo che causa la contrazione della pubblicità. Un classico caso di circuito vizioso che difficilmente potrà invertirsi. Se si riducono gli spazi di mercato per le tv nazionali, c’è il rischio che qualche player debba nel prossimo futuro soccombere; chi sarà, la Rai o Mediaset?

Gli ascoltatori medi giornalieri nella prima serata ammontavano nel 2010 a 25 milioni, nel 2018 sono scesi a 23,6 milioni (-6%). Nel 2010 il 44% della popolazione (+4 anni) guardava la tv in media ogni sera, nel 2018 la quota scende al 40%. Il calo è costante e continuo (in particolare dal 2013), e si accompagna con un altro dato negativo (per la pubblicità): l’invecchiamento dei telespettatori, fenomeno che colpisce in particolare la Rai (l’età media del Tg1, per esempio, è pari a circa 61 anni, mentre quella della serie pomeridiana di Raiuno Il paradiso delle signore arriva a circa 66 anni).

La platea televisiva diminuisce e s’invecchia e ciò causa, insieme alla crisi economica e al ristagno dei consumi, il calo della pubblicità. Dal 2010 i ricavi pubblicitari di Mediaset scendono di -26% e quelli di Rai di -39%: una débâcle! La pubblicità ora privilegia il web. Siamo quindi di fronte a una crisi strutturale della tv tradizionale, mentre avanza la cosiddetta “televisione oltre la televisione”, quella fruita sulle varie piattaforme web. Alla luce di queste variabili, domandiamoci cosa accadrà nel mercato tradizionale della televisione.

Nel segmento della pay Sky, che ha da poco superato i 5 milioni di abbonati (il 20% delle famiglie), è ormai il dominus assoluto, dopo l’uscita di Premium, ed è improbabile che in questo mercato possano entrare altri player, anche se Netflix si espande continuamente (per tipologia dell’offerta i due operatori non sembrano comunque in concorrenza diretta). Nella tv nazionale, gli spazi dei due ex oligopolisti, Rai e Mediaset, si stanno drammaticamente restringendo. Non è irragionevole ipotizzare che uno dei due debba ridimensionarsi.

Rai ha il vantaggio del canone (circa 1,7 miliardi) – ricavo che riceve all’inizio dell’anno e che copre i due terzi del fatturato – e quello di mantenere e spesso di ampliare (a scapito del diretto concorrente) la leadership degli ascolti. Mediaset ha urgente bisogno di reinventarsi nella programmazione e di entrare nel mondo “oltre la tv”, nel web: notizie di stampa prevedono accordi con un importante player europeo ed è ancora aperta la partita Tim, dove Mediaset potrebbe entrare da protagonista.

L’obiettivo delle tv di oggi è far “parlare” la gente dei propri programmi, fare in modo che i programmi già andati in onda siano rivisti, anche a pezzi (la “snack tv”) e commentati sui social. Ciò accade, per esempio, per Gomorra o per il Festival di Sanremo o per X-Factor, meno per L’isola dei Famosi.

Chi vincerà fra i due ex oligopolisti? Difficile dirlo, anche perché c’è la possibilità che la politica intervenga per favorire l’uno o l’altro. Attualmente, per esempio, è prerogativa del governo decidere ogni anno la quota del gettito del canone da destinare alla Rai: è sufficiente alzare o abbassare detta quota per favorire o danneggiare la Rai con conseguenze opposte per il diretto concorrente. Rai e Mediaset dovrebbero cercare di risollevarsi con le proprie forze, riponendo al centro i contenuti, curando i programmi in modo da frenare l’esodo dei telespettatori e non confidare in (incerti e anche spesso infruttuosi) aiuti dalla politica.

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