L’Italia sta diventando un Paese razzista? A sentire molti – di solito quelli indiziati di razzismo – la risposta è no: al massimo c’è un po’ di legittima e comprensibile diffidenza per lo straniero, niente di più. E la Lega di Matteo Salvini, con tutti i suoi emuli, non ha peggiorato le cose, ha soltanto dato voce senza filtri a quello che tanti hanno sempre pensato. E poi, un Paese in cui la canzone più ascoltata su Spotify e che ha pure vinto Sanremo è cantata da uno che di nome fa Mahmood potrà mai essere razzista?

Il test – Per rispondere suggerisco di applicare il test “Green Book”: il film di Peter Farrelly che ha appena vinto l’Oscar parla degli Stati Uniti degli anni Sessanta, ma ha parecchio da dire anche a noi italiani del 2019. Don Shirley (Mahershala Ali) è uno straordinario jazzista, potrebbe restare a New York a godersi la meritata fama ma sceglie di affrontare una tournée negli Stati del Sud, quelli dove i suoi neanche tanto remoti antenati arrivavano solo come schiavi. Non per soldi, ma con lo stesso spirito con cui Rosa Parks si sedette nei sedili del bus riservati ai bianchi: per provare, nel suo piccolo, a cambiare il mondo. Come autista, e come guardia del corpo, assolda Tony Lip (Viggo Mortensen), l’equivalente newyorchese di un elettore leghista della Val Brembana. Al film si perdona la sua carica “buonista”, come si dice nell’Italia gialloverde, soltanto perché è una storia vera. Ma veniamo al test “Green Book”.

Il pubblico – Tra Mississippi e Arkansas Don Shirley ha più successo che Mahmood in Italia. E senza Spotify. Le ricche famiglie bianche lo invitano a casa come ospite d’onore, amano ascoltare le raffinate esecuzioni del suo trio. Ma quando il pianista deve andare in bagno, gli indicano il gabinetto dei “boys”, degli ex-schiavi, in cortile. In quello con i marmi pisciano solo i bianchi. Morale: non è la vittoria di un Mahmood a Sanremo che indica la temperatura di razzismo di un Paese. Si può amare la musica di qualcuno che si disprezza. In Italia, per la verità, siamo forse un po’ più indietro, visto che Matteo Salvini ha fatto sapere che lui, a Mahmood, preferiva il più tradizionalmente italiano Ultimo.

La carriera – Don Shirley dimostra uno straordinario talento precoce. Lui vorrebbe suonare Chopin, Mozart, Brahms. Ma gli spiegano la musica classica non è roba per lui, un “negro” al massimo fa intrattenimento, deve far ballare la gente nei locali, suonando a un pianoforte malmesso su cui tiene sempre un bicchiere di whiskey. Shirley diventerà un grande pianista jazz, forse il migliore della sua generazione, ma pur sempre il migliore in un campo da “negri”. Non riuscirà a sfondare il muro, a fare la carriera “da bianco”. L’Italia passa il test “Green Book”? Qui i “negri” possono soltanto fare lavori da “negri”? A giudicare dalle statistiche sembra di sì. Gli immigrati fanno lavori da immigrati: agricoltura, pulizie, cura degli anziani, quando va bene edilizia. Ma un Don Shirley italiano suonerebbe musica classica o dovrebbe ripiegare sul jazz? A giudicare dal fatto che perfino i calciatori neri vengono ancora fischiati negli stadi, è lecito pensare che al massimo riuscirebbe a fare il musicista di strada.

Le regole – Una delle scene che restano del film è quella in cui un poliziotto ferma Tony Lip, l’autista, e Don Shirley, il passeggero. Il poliziotto non si capacita che a guidare sia il bianco e non il nero. Ma quando Tony Lip dice il suo nome completo, Vallelonga, il poliziotto vede la spiegazione: “Ah, sei un mezzonegro anche tu”. Tony gli molla un cazzotto e finisce in carcere. Ma pure Don Shirley viene messo dietro alle sbarre, anche se lui non ha fatto proprio nulla. Riesce a uscire solo scomodando Bob Kennedy in persona, procuratore generale degli Stati Uniti. L’Italia passa il test “Green Book” sulle regole e il trattamento? Sono le stesse tra i “bianchi” e gli altri? Sempre più elementi paiono indicare che anche qui stiamo costruendo quel razzismo istituzionalizzato che è alla base di molti dei problemi degli Usa: agli stranieri che vogliono il reddito di cittadinanza sarà richiesta una montagna di burocrazia aggiuntiva, che per molti diventerà una barriera insuperabile; quando la vittima di una rapina (di solito italiano, bianco) spara, avrà mille attenuanti, anche se uccide il ladro o aspirante tale (di solito immigrato). Ma se l’immigrato stupra, uccide, spaccia, allora le pene devono essere aumentate e – con cadenza regolare – si riapre il dibattito sulla castrazione chimica. E il decreto sicurezza condanna migliaia di immigrati a non lavorare, spingendoli di fatto verso l’economia sommersa. E dunque lontano dall’uguaglianza di opportunità con gli italiani, lontanissimo da quella di risultati.

La sicurezza – In molte tappe del suo viaggio Don Shirley rischia la vita. A volte perché sfida le regole, nella sua elegante e discreta forma di disobbedienza civile, a volte semplicemente perché osa mettere il naso fuori dalla sua camera d’albergo. Anche in Italia c’è un problema di incolumità fisica? Le scritte “Ammazza al negar” comparse sui muri della casa del 21enne di Melegnano Bakary, indicano un clima, per fortuna per ora senza conseguenze fisiche. Ed episodi come quello di Luca Traini, l’estremista (bianco) che nel 2017 si è messo a sparare contro gli immigrati (neri) a Macerata perché turbato dalla morte della giovane Pamela, sono l’eccezione e non la regola. E, certo, il maestro di Foligno che invita i bambini a insultare i due compagni nigeriani è uno squinternato isolato. Ma dubito che questo rassicuri i tanti ragazzi con la pelle scura che si trovano a leggere queste notizie, indipendenti tra loro ma frequenti.

Il “Green Book” che dà il titolo al film è una guida delle strade e dei posti sicuri per i “negri” che vogliono viaggiare negli Usa in terra ostile, cioè praticamente ovunque lontano dalle metropoli della costa Est. Ma la morale del film è che cioè che garantisce davvero sicurezza e benessere (dei neri ma non solo) non è l’isolamento, la separazione, la giusta distanza dai razzisti. Soltanto la contaminazione, il contatto fisico e culturale permette agli oppressori di confrontarsi con l’assurdità del pregiudizio e alle vittime di umanizzare una categoria di nemici senza volto e senza nome e, quindi, di poterne affrontare uno per uno i componenti. Tony Lip deve imparare che non tutti i “negri” amano lo stesso tipo di musica, che tra coloro che lui considera subumani ci sono raffinati intellettuali quanto uomini rudi e onesti come gli italiani del Bronx. Mentre Don Shirley deve imparare a mangiare il pollo fritto senza posate e a incuriosirsi per la vita degli altri, anche se bianchi, abbassando quel muro di superiorità culturale di cui si è circondato per compensare i complessi di inferiorità maturati in una vita di soprusi.

Il titolo del film di Peter Farrelly non è stato tradotto in italiano, è rimasto “Green Book”, perché non c’è un equivalente italiano di quel libretto che certificava il razzismo. Speriamo che nessuno senta il bisogno di trovare un neologismo per riempire questo vuoto.

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