L’analisi costi-benefici commissionata dal ministero delle Infrastrutture ha ricevuto numerose critiche. In particolare è stato rilevato come il computo dei mancati introiti per accise e pedaggi autostradali tra le voci di costo, avrebbe l’effetto di ridimensionare drasticamente i benefici ambientali e orienterebbe i risultati della valutazione verso il trasporto su gomma rispetto a quello ferroviario. Come evidenziato tra gli altri da Michele Boldrin in questo post, questa scelta è in realtà coerente con lo schema di equilibrio parziale adottato dagli estensori della valutazione; piuttosto è questo tipo di metodologia a non essere appropriato, perché per infrastrutture di queste dimensioni andrebbe utilizzato un modello di equilibrio economico-generale.

Per intendersi, se devo valutare la convenienza di una pista ciclabile un modello di equilibrio parziale è adatto, perché la nuova opera pubblica non ha ripercussioni rilevanti su tutto il sistema economico; viceversa, se valuto un’opera che ha impatti su economie di vari paesi occorre uno modello più complicato, che tenga conto delle interazioni tra i diversi sistemi economici.

A parte queste, pur rilevanti, questioni di merito sulle conclusioni della valutazione di convenienza, il principale errore di prospettiva delle discussioni sulla Tav ha a che vedere con l’utilizzo che viene fatto del documento, piuttosto che sul documento stesso.

E’ da tempo noto che nessuna infrastruttura (in generale nessuna azione di politica economica) possa soddisfare il criterio che in Economia viene definito di Pareto-Ottimalità (aumenta il benessere di alcuni, senza ridurre quello di altri) ed essere pertanto auspicabile con certezza. Ne consegue che le decisioni hanno sempre natura politica e non si può utilizzare un documento redatto da tecnici come una sorta di sentenza inappellabile per giustificare il proprio operato.

Possiamo dunque dire che il verdetto della commissione presieduta da Marco Ponti metta la parola fine alla questione? No, perché questo vorrebbe dire nascondere una precisa linea di azione politica dietro una relazione tecnica, peraltro non esente da sostanziali rilievi di carattere metodologico.

Quali considerazioni è possibile allora fare per valutare la situazione in modo indipendente?

Come evidenziato da Giorgio Santilli sul Sole 24 ore, di norma questo tipo di valutazioni si fanno prima di avviare un’opera pubblica, non a lavori in corso e dopo che sono stati firmati trattati internazionali e l’opera è ricompresa in tutti i piani europei e nazionali. Pertanto, dal momento l’opera è in corso, più che guardare a una relazione di convenienza sul progetto complessivo, che quindi include anche le quote di costo a carico della Francia e della Unione Europea, occorrerebbe formulare un confronto tra le reali alternative oggi a disposizione del nostro paese: da un lato i benefici attesi – la quota la quota Italiana di costo di completamento, dall’altro gli oneri di ripristino di quanto già costruito, le penali nei confronti della Francia e di tutti gli altri soggetti coinvolti incluse le richieste di danni e il contenzioso legale connesso.

Il modo corretto di affrontare la questione è quindi di prendere atto che l’economia non può dirci ex ante, e men che meno in corso d’opera, se la Tav conviene o meno perché si tratta di una domanda indeterminata in senso assoluto (la convenienza si modifica in base alle preferenze degli individui). Quel che può invece chiarirci con dovizia di particolari, è quale sarà il conto da pagare per chi perde la partita, una volta che le istituzioni politiche avranno scelto quali preferenze assecondare.

@massimofamularo

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