Qualche anno fa destò scalpore/curiosità la boccetta con in vendita l’aria di una località valdostana. Nient’altro che un’estremizzazione di un processo in atto da tempo: la privatizzazione di beni di noi tutti. Del resto, la stessa proposta di legge popolare frutto della Commissione Rodotà sente la necessità di annoverare fra i beni pubblici l’aria (quasi che possa essere in teoria privata). E comunque, l’acqua, che rappresenta l’altro elemento essenziale per la vita, privata spesso lo è già.

Tanto siamo entrati nell’ottica che i beni pubblici possano non essere più pubblici che non ci si fa nemmeno caso quando li si perde. È il caso dei porti turistici (impropriamente definiti “porticcioli”) che sempre più costellano le nostre già martoriate coste. In Italia, secondo gli ultimi dati forniti dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ci sono la bellezza di 158.548 posti barca, con relative strutture di accoglienza, che solo in minima parte sono all’interno di porti già esistenti: nella stragrande maggioranza sono appunto porti realizzati ad hoc.

Nessuno si è occupato fino ad oggi della problematica; eppure un porto turistico significa, nella maggior parte dei casi, almeno:
1. eliminazione di una spiaggia o comunque di un litorale;
2. occupazione di una più o meno vasta porzione di mare per gli ormeggi e i servizi conseguenti;
3. colata di cemento sul fronte porto.

Questo per quanto riguarda l’aspetto della privatizzazione e del consumo di suolo. In più mettiamo sul piatto le conseguenze sull’ambiente marino: inquinamento, alterazione dei fondali (se c’è la Posidonia, scompare), alterazione del moto ondoso con relativi riflessi sul resto della costa. Un fenomeno enorme, quindi, che interessa costa e mare. Eppure, colpevolmente trascurato.

Ho voluto riempire questo vuoto occupandomene personalmente, anche in virtù della mia costante frequentazione della Liguria. Ed ecco dunque il saggio Il mare privato. Lo scempio delle coste italiane. Il caso dei porti turistici in Liguria (Altreconomia, 2019). La Liguria, infatti, con i suoi 23.775 posti barca è di gran lunga la regina delle regioni italiane, seguita a debita distanza dalla Sardegna con 19.482.

La Liguria racchiude un 22esimo del totale delle coste italiane, ma possiede più di un sesto dei posti barca! La Liguria che, nonostante sia stata nei decenni terra amministrata da partiti che si definivano “di sinistra” (vi ricordate i vecchi Partito Socialista e Partito Comunista? Qui imperversavano), ha sacrificato il proprio territorio sull’altare della speculazione edilizia (nel 2013 la stessa Regione Liguria ha stimato per difetto che siano la bellezza di 523.300 le abitazioni non occupate).

La Liguria da cui proviene quel Claudio Burlando, che è stato prima sindaco di Genova, poi deputato nelle file dei Ds, poi ministro dei Trasporti e della Navigazione nel primo governo Prodi e infine governatore della regione. Quel Burlando che, giusto da ministro, varò il Dpr 509/1997 (definito appunto “decreto Burlando”) che definisce la procedura per la realizzazione dei porti. Agile, breve, senza gara, con termine della concessione fissato dal proponente, e in più – grazioso regalo – oltre al porto si possono anche realizzare opere sulla costa.

Burlando dà il via libera non solo al mare privato ma anche a un’ulteriore cementificazione della costa, quasi che la Liguria ne abbia ancora bisogno. I porti turistici diventano assimilabili ai campi da golf: in ambedue i casi il progetto è anche un cavallo di Troia per fare residenze: con vista mare o con vista green.

Ma porti turistici non significano solo privatizzazione di beni comuni, non significano solo alterazione di territorio e ambiente, non significano solo graziosi regali dei politici: significano anche (come spesso accade in Italia, dove domina il cemento) criminalità organizzata, in particolare la ‘ndrangheta. La Dia ha accertato che la Liguria è la regione con maggiore infiltrazione di ‘ndrangheta in Italia, con ben nove “cellule”, che vengono chiamate “locali”. E il libro dimostra come essa si sia infiltrata anche nel settore dei porti turistici.

Senza contare che nei porti turistici non vi sono controlli su merci in entrata e in uscita e quindi essi diventano un porto franco anche per quanto riguarda la droga. Così la ‘ndrangheta ci guadagna due volte: nella realizzazione e/o gestione del porticciolo e nel traffico conseguente di stupefacenti.

Il libro ha visto la luce non solo perché mi sono speso personalmente – e perché Altreconomia ci ha creduto – ma perché ho trovato la preziosa, indispensabile collaborazione di più persone: da Paolo Berdini, che ne ha curato la prefazione, a Sebastano Venneri di Legambiente che ha curato il capitolo sui porti turistici in Italia. Da Giampietro Filippi a Franco Zunino; da Franca Guelfi a Marco Piombo; da Massimo Acanfora alla Casa della legalità di Genova. Nonché grazie a tutti coloro che in questi anni si sono battuti contro il cancro dei porti turistici, rischiando in proprio, ricevendo accuse, minacce, pallottole. Perché così accade quanto di metti contro il partito del cemento, in Italia.

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