“La gente ha iniziato ad attraversare il confine, ma non aveva nulla, non aveva un posto dove stare. Così abbiamo deciso di accoglierli nelle nostre case come fratelli e sorelle. Tutte le comunità qui nello stato di Cross River sono ospitali e gentili con i rifugiati provenienti dal Camerun. Lo scorso anno, abbiamo ospitato più di 100 profughi nella mia comunità: uomini, donne e bambini.” A parlare così è Augustine Eka, un nigeriano che ha aperto le porte della sua umile casa ai rifugiati provenienti dal vicino Camerun. Siamo nel villaggio di Amana, Cross River State: lo stato più meridionale della Nigeria, al confine con la regione dove da un anno e mezzo violenze e insicurezza crescente hanno messo in fuga centinaia di migliaia di persone.

Nell’ottobre 2017 le due regioni anglofone del Camerun, il Nordovest e il Sudovest, dopo anni di rivendicazioni inascoltate e richieste di maggiore autonomia dal governo centrale francofono, si sono autoproclamate indipendenti, con il nome di Ambazonia. Lo stato centrale ha scatenato una feroce repressione e ad andarci di mezzo è stata la gente comune, spesso del tutto ignara di quanto stava avvenendo: 400mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, divenendo sfollati interni. E 30mila hanno passato il confine con la Nigeria, entrando proprio nel Cross River State, dove la popolazione – povera anch’essa – ha deciso di offrire ospitalità ai nuovi venuti, aprendo le proprie case. Come ha fatto Augustine.

Fidelis Kigbor è uno dei rifugiati che vivono a casa di Augustine. È fuggito dal Camerun il 1° ottobre 2017, giorno in cui le forze secessioniste dichiararono l’indipendenza: “Vivevo con la mia famiglia a Mamfee, dove ero agricoltore. Avevo costruito lì la mia casa, ma è stata distrutta. Quando siamo arrivati qui nel villaggio di Amana, gli abitanti ci hanno accolto, anche se non avevano molto da offrire.” E aggiunge: “Mi piacerebbe tornare nel mio paese quando le cose andranno meglio, ma ho perso tutto. Avrò bisogno di aiuto per ricostruire la mia vita.”

Mentre alcuni dei rifugiati vivono ancora nei villaggi nigeriani insieme agli abitanti del posto, altri sono stati trasferiti in campi per i rifugiati. Il campo di Adagom, gestito dall’Unhcr, è stato costruito a metà agosto 2018. A dicembre, c’erano già più di 6.400 persone. Racconta Gmoltee Bochum, 31 anni: “In Camerun vivevo a Bamenda. Ero ingegnere informatico e insegnante. Non so quando finirà la violenza, ma so che ho perso tutto. Ora vivo con la mia famiglia in questo campo rifugiati, ma la vita è dura. Viviamo tutti insieme in una tenda molto piccola.”

Dal luglio 2018 è stato avviato un progetto di Medici Senza Frontiere, che gestisce l’emergenza sanitaria sia nei villaggi e nel campo per rifugiati di Adagom. Letizia Di Stefano è medico e responsabile per MSF dei progetti in Nigeria. È da poco rientrata da una visita in loco e spiega a ilfattoquotidiano.it che il loro progetto nel Cross River State è stato avviato proprio a causa il massiccio arrivo di rifugiati camerunesi. L’afflusso prosegue ancor oggi e si registrano nuovi sfollati ogni giorno. MSF offre cure di base, consultazioni pediatriche, cure per la malaria, le infezioni respiratorie e cutanee. Ma non solo: “Ora desideriamo estendere il campo di intervento alla salute mentale e alle cure post violenza sessuale: chi arriva da una fuga e da condizioni drammatiche, subisce spesso traumi che vanno curati.”

Per il dottor Precious Mudama, che opera nelle cliniche mobili di MSF, i bisogni sono enormi. “Le nostre équipe mobili visitano in media 120-150 pazienti al giorno, di cui l’80% sono rifugiati e il 20% membri delle comunità ospitanti. Prima dell’arrivo di MSF, la situazione era drammatica, il sistema sanitario locale era allo stremo e mancavano personale e materiali.”

Anche Chiara Paci, 28 anni, fa parte dello staff di MSF, dove si occupa di comunicazione. È  appena rientrata dalla Nigeria e per lei era la prima volta sul campo. “Nonostante io seguissi quotidianamente i progetti e credessi di essere pronta – ci racconta – l’impatto con la realtà è stato forte. Ci sono tantissime donne, bambini, anziani in fuga, molti non hanno consapevolezza di ciò che accade in Camerun e del perché le loro case siano state  distrutte, le loro proprietà date alle fiamme. L’istinto è stato quello di scappare, molti in altre regioni del Camerun, altri nella foresta che si trova al confine, dove hanno trascorso giorni e settimane, riuscendo in alcuni casi ad attraversare la frontiera. Le organizzazioni umanitarie non riescono ad accedere alle regioni teatro della crisi, ci sono i numeri di sfollati e rifugiati, ma quanti non ce l’hanno fatta? Quanti sono morti attraversando la foresta? Questo nessuno lo sa. Abbiamo le testimonianze di tanti di loro che sono partiti in gruppo e sono arrivati senza familiari. Ho parlato con una ragazza che aveva un anno meno di me: aveva visto la sorella uccisa davanti a lei… era scappata, arrivando in Nigeria con i tre figli, ma nella fuga aveva perso i fratelli e le sorelle.”

Prosegue Chiara: “Mi sono recata in uno dei villaggi in prima linea nell’accoglienza. Ora ci siamo noi e altre organizzazioni internazionali, ma un anno fa, quando sono iniziati gli arrivi, non c’era nessuno ad offrire supporto. In poco tempo il numero di persone nei villaggi è raddoppiato. Una situazione potenzialmente esplosiva. E invece no: la gente comune ha aperto le porte delle proprie umili abitazioni, condividendo quel poco che avevano, con semplicità e naturalezza. Augustine, che ho incontrato personalmente, in quel momento ospitava una decina di camerunesi. ‘Hanno perso tutto. Non vedo altra via che accoglierli come fratelli e sorelle’, mi ha detto proprio così”.

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