Investire tutto in ricerca e sviluppo per far aumentare la produttività dell’economia e aumentare stabilmente i tassi di crescita? Può funzionare e l’impatto è forte, ma per vedere appieno gli effetti ci vogliono 15 anni. Sono le conclusioni a cui arriva uno studio approfondito dell’istituto di ricerche Bruegel datato 2016. Un’analisi che torna utile in una fase di crescita stagnante e in cui molti osservatori sostengono che le risorse destinate dalla legge di Bilancio a reddito di cittadinanza e quota 100 avrebbero effetti molto maggiori se dirottate sugli investimenti e in particolare su quelli in r&s, rispetto ai quali l’Italia è fanalino di coda tra i Paesi sviluppati. Secondo il working paper del Bruegel, a livello europeo un investimento aggiuntivo di 8 miliardi in ricerca e sviluppo farebbe crescere il pil di 75 miliardi in più dopo 15 anni e di 86 miliardi dopo 20 anni. Un moltiplicatore pari a 10 che però sviluppa appieno la sua forza nell’arco di due decadi. Più rapido sarebbe invece l’effetto di investimenti “tradizionali”, come quelli nelle infrastrutture.

Da reddito e quota 100 impatto limitato – Per ammissione dello stesso ministro dell’Economia Giovanni Tria, sarebbe illusorio attendersi grandi effetti sulla crescita economica da reddito di cittadinanza e quota 100. Insieme i due interventi valgono in questo 2019 di applicazione parziale circa 10 miliardi di euro e, secondo le stime del Tesoro, agiscono sull’economia con un moltiplicatore di 0,3. Significa che producono una spinta quantificabile in 3 miliardi di euro. Nel dettaglio il moltiplicatore del reddito è di 0,5 e quello della riforma delle pensioni pressoché nullo. Diverso, e in proporzione ben più consistente, l’impatto che hanno i 3 miliardi di investimenti inclusi in manovra, grazie a un moltiplicatore pari a 1. Cioè un euro speso in investimenti genera un aumento del Pil di un euro, un euro messo nei sussidi ai disoccupati produce un aumento del Pil di cinquanta centesimi e un euro destinato a quota 100 non genera alcun ritorno in termini di crescita. Oltre a migliorare le capacità produttive di un paese, gli stanziamenti per gli investimenti hanno il pregio di tradursi interamente in spesa effettiva mentre le integrazioni al reddito, sotto varia forma, vengono di solito in parte risparmiate. Anche se in questo caso il decretone prevede penalizzazioni per chi non spende tutto.

Con 13 miliardi in investimenti, il pil salirebbe di un punto già nel 2019 – Secondo le stime i 3 miliardi di investimenti dovrebbero produrre una crescita supplementare dello 0,2%. Se però le risorse destinate a reddito di cittadinanza e pensioni venissero interamente dirottate su questo capitolo, raggiungendo così i 13 miliardi, il beneficio per la crescita economica potrebbe avvicinarsi al punto percentuale, già nel 2019. Questo nell’ipotesi che i fondi stanziati venissero tutti effettivamente spesi. Ancora più marcato sarebbe poi l’effetto nell’arco del prossimo triennio, quando reddito di cittadinanza e quota 100 assorbiranno, almeno in teoria, circa 100 miliardi di euro. Per questo secondo Francesco Saraceno, economista dell’università Luiss di Roma e del centro studi Science-Po di Parigi, “dal punto di vista della spinta alla crescita la manovra 2019 è un’occasione sprecata. Misure come il reddito di cittadinanza sono senz’altro utili per fronteggiare il problema delle diseguaglianze ma il rischio c’è il sostegno vada anche beneficio anche di soggetti che non avrebbero i requisiti, con un impatto sulla spesa finale ridotto”. L’effetto sui consumi che rischia quindi di risultare annacquato, a causa della forte presenza di economia e redditi sommersi che caratterizzano il nostro paese.

“Spostando la spesa sulle infrastrutture più margini di trattativa con l’Ue” – “Un piano di investimenti più strutturato”, continua Saraceno, “consentirebbe di mobilitare risorse inutilizzate e avrebbe un impatto più immediato e significativo, come, peraltro, confermano le stime del ministro Tria. A mio giudizio la priorità andrebbe data a interventi di ammodernamento delle infrastrutture di trasporto, come la manutenzione di ponti, autostrade e ferrovie, oltre che allo sviluppo della banda larga. In quest’ultimo caso i  tempi di ritorno sulla crescita un po’ più lunghi, nell’ordine dei 6-7 anni ma con ricadute davvero importanti per molti settori, tra cui il turismo diffuso”. Le regole europee oggi permettono di non conteggiare le spese per investimenti nel deficit solamente se si stratta di contributi al “piano Juncker”, varato nel 2014 dalla Commissione Ue per rilanciare la crescita ma con dotazione iniziale piuttosto modesta. Circa 20 miliardi di euro che si attivano solo nel momento in cui intervengono finanziatori esterni, privati o pubblici. Secondo Saraceno regole diverse sulla contabilizzazione della spesa per investimenti sarebbero auspicabili. “Tuttavia”, ragiona l’economista, “nel contesto attuale, con una Commissione che sembra disposta a concedere spazi aggiuntivi di flessibilità, un piano di investimenti serio e credibile consentirebbe di ottenere margini di  trattativa più ampi”. Non si dimentichi, conclude Saraceno, “che solo pochi giorni fa il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha sottolineato come l’economia europea sia oggi più debole di quanto atteso e come sarebbero quindi opportuni nuovi stimoli alla crescita. Non solo monetari, come fatto sinora dalla Bce, ma finalmente anche di natura fiscale, ad opera dei governi”.

Moltiplicatore 10 per la spesa in r&s – Ma cosa succederebbe se, invece che in infrastrutture, le risorse fossero destinate agli investimenti in ricerca, spesso identificati come quelli maggiormente in grado di fare da volano per l’intera economia? Certamente l’Italia destina a questa voce risorse basse e inferiori, in rapporto al Pil, rispetto ad altri paesi economicamente avanzati. Da tempo galleggiano sulla soglia dell’1,3% del Pil (circa 20 miliardi di euro) più o meno equamente suddivisi tra pubblico e privato. Ai fini di un paragone si consideri che la Germania investe somme pari al 3% del Pil, la Francia il 2,2%, il Giappone oltre il 3% e gli Stati Uniti il 2,8%. Un’accelerazione italiana su questo fronte sarebbe quindi senz’altro auspicabile. Tuttavia calcolare le ricadute in termini di crescita economica è complesso. Lo ha fatto nel 2016 l’istituto Bruegel. Dallo studio emerge che gli effetti sono importanti ma richiedono tempi lunghi. Ipotizzando un investimento aggiuntivo di 8 miliardi di euro nei paesi dell’Unione europea, si calcola che l’economia crescerebbe di 75 miliardi in più dopo 15 anni e di 86 miliardi dopo 20 anni. Un moltiplicatore pari a 10 che però sviluppa appieno la sua forza nell’arco di due decadi.

La spinta al pil in quattro fasi – La spinta al Pil si articola in quattro fasi. La prima, immediata, è riconducibile all’acquisto di macchinari per la ricerca e agli stipendi, più alti e numerosi, pagati ai ricercatori. Introiti che si traducono, in parte, in consumi aggiuntivi con un effetto moltiplicatore sul Pil comunque inferiore all’unità. La seconda fase è caratterizzata da un aumento della produttività, diminuzione dei costi e innalzamento della qualità dei prodotti. Nella terza fase questi miglioramenti si traducono in prezzi più bassi, qualità migliore e spinta alla competitività. In questo frangente i miglioramenti tecnologici si diffondo da settore a settore e tra paesi in rapporti commerciali. I benefici insomma travalicano la sfera di chi ha materialmente investito in ricerca e ricadono sul sistema economico nel suo complesso. Per questo motivo nella quarta e ultima fase il vantaggio competitivo si assottiglia e l’effetto positivo sull’economia sfuma gradualmente. Le stime sono rese più complicate dagli “effetti collaterali” legati a più ricerca: processi produttivi più efficienti e avanzati possono ad esempio causare anche perdite di posti di lavoro. Inoltre la rapidità e l’entità degli effetti della maggior spesa variano da settore a settore e da paese a paese. È comunque interessante notare come, secondo diversi studi, le ricadute sull’economia e la società nel loro complesso superino ampiamente i benefici per la singola impresa, pubblica o privata, che aumenta i suoi investimenti in ricerca.

Quel moltiplicatore “troppo basso” dell’austerity in Grecia– Il concetto di moltiplicatore e la sua quantificazione rimangono comunque un argomento molto discusso e controverso nella teoria economica. In generale un aumento della spesa pubblica produce un effetto a cascata (chi riceve i soldi sua volta li usa, in parte, per consumare generando ulteriore domanda) che si esaurisce gradualmente. Un meccanismo che funziona nel bene e nel male. Ossia un aumento di spesa spinge la crescita, una riduzione la frena. Stabilire quanto e quando è però operazione complessa poiché soggetta all’influenza di numerose variabili, a cominciare dalle condizioni economiche, espansive o recessive, in cui si interviene sulla spesa. Nel 2012 fece scalpore, quantomeno negli ambienti economici, il “mea culpa” dell’allora capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard. L’economista francese ammise che per valutare gli effetti della riduzione della spesa pubblica della Grecia era stato utilizzato un moltiplicatore troppo basso (lo 0,5). A livello teorico, veniva così attenuato l’impatto negativo sul Pil delle misure imposte al paese dalla “troika” (Commissione Ue, Bce ed Fmi). Da quel momento si è diffusa la consapevolezza che i moltiplicatori possono variare in modo significativo a seconda che vengano applicati ad una fase di contrazione o di espansione economica.

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