Da quest’anno le aziende produttrici di alcuni medicinali salvavita destinati alla cura dei malati rari – affetti cioè da patologie gravi, difficili da diagnosticare e prive spesso di una terapia poiché riguardano un numero molto basso di casi (meno di 5 ogni 10mila abitanti)-  dovranno sobbarcarsi una spesa aggiuntiva che potrebbe frenare gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuove molecole.

Un colpo indigesto messo nero su bianco nel comma 578 dell’articolo 1 della legge di Bilancio per il 2019. Poche righe in cui, nello specifico, ai produttori di farmaci orfani – così vengono definiti quelli indicati per il trattamento delle malattie rare – la cui esclusività di mercato è scaduta (e quindi ormai esclusi dalla lista Ue), e dei cosiddetti “orphan like” (cioè di quelli orfani “di fatto”, ma privi della dicitura perché approvati prima del regolamento europeo del 1999 che ne ha introdotto la definizione), viene tolta l’esenzione dal meccanismo del payback, ossia il pagamento dello sforamento del tetto della spesa farmaceutica ospedaliera.

Un sistema per il controllo della spesa farmaceutica pubblica che dal 2013 addebita il disavanzo per il 50 per cento ai big del farmaco che hanno superato il budget assegnato (e per l’altra metà alle regioni in cui è avvenuto il superamento del tetto), e che dal 2014 si ripartiscono anche la quota delle ditte di farmaci orfani. In pratica, un contributo di solidarietà da parte delle multinazionali per sostenere il settore delle malattie rare.

Meno remunerativo di altri, essendo pochi i pazienti e i tempi lunghi per lo sviluppo dei medicinali, con un alto rischio di fallimento. Ma, ha sottolineato il sottosegretario alla Salute, Luca Coletto, intervenendo in commissione Affari sociali, “in ordine alla scelta operata a suo tempo dal legislatore, si sono registrate una serie di criticità, in quanto è stata sollevata la questione di mancanza di equità e si sono registrati numerosi ricorsi in materia da parte delle aziende produttrici di medicinali non orfani”.

La novità contenuta nella manovra ha però messo in agitazione oltre 50 associazioni di pazienti. Che hanno lanciato un appello al ministro della Salute Giulia Grillo per modificare la norma. La loro preoccupazione è che la cancellazione dell’esonero dal payback, creando un danno economico alle industrie produttrici, possa penalizzare in futuro i pazienti ancora in attesa di un trattamento. Perché, oltre a sottrarre potenziali risorse alla ricerca scientifica, potrebbe far perdere l’interesse alla produzione di questi farmaci. Vitali per chi soffre di sintomi cronici e invalidanti, spesso degenerativi e letali.

Le malattie rare possono comparire già dalla nascita o nell’infanzia, come l’amiotrofia spinale infantile, la neurofibromatosi, l’osteogenesi imperfetta, le condrodisplasie o la sindrome di Rett. Oppure in età adulta, come la malattia di Huntington, quelle di Crohn e di Charcot-Marie-Tooth, la sclerosi laterale amiotrofica, il sarcoma di Kaposi o il cancro della tiroide. Ma la titolare del dicastero in un post su Facebook del 6 gennaio, rispondendo alle critiche mosse da Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio delle malattie rare, secondo cui si tratterebbe di “un regalo alle multinazionali e un grosso peso per le piccole aziende che si occupano di malattie rare”, aveva respinto le accuse spiegando che la legge di Bilancio ha portato “un meccanismo di equità che prima, nella norma che regola i tetti di spesa sulla farmaceutica, non c’era”.

La Grillo fa riferimento al nuovo criterio di ripartizione della quota, stabilito nella manovra, che tiene conto del fatturato dell’azienda e che introduce una franchigia di tre milioni di euro a tutela delle piccole imprese. Mandando in soffitta il calcolo molto complesso usato finora, che – spiega l’Ufficio parlamentare del bilancio in un report del giugno 2017 – ha generato tra aziende farmaceutiche e l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) un contenzioso davanti al Tar per 1,5 miliardi di euro per il solo triennio 2013-2015 e un mancato incasso per lo Stato di 600 milioni a causa dei ricorsi.

“Questo – continua il ministro – significherà maggiori opportunità di investimento in ricerca e sviluppo per molte più aziende rispetto a prima con ricadute positive per tutto il settore”. Quindi, sentenzia: “Nessun regalo a Big Pharma”. Anche se da oggi le multinazionali non dovranno più accollarsi la quota di ripartizione dei costi derivanti dal superamento del tetto spettante alle aziende di farmaci orfani, che sulla base dei dati Aifa una fonte riferisce a Ilfattoquotidiano.it essere “intorno ai 100 milioni di euro“. L’eliminazione delle tutele, calcola l’Osservatorio delle malattie rare, riguarda 39 farmaci su 92 disponibili, pari al 42 per cento dei farmaci orfani disponibili sul mercato italiano.

La questione è stata sollevata anche dal capogruppo Pd in commissione Affari sociali Vito De Filippo in un’interrogazione depositata il 3 gennaio. Nel frattempo a rassicurare i pazienti è Patrizia Popoli, direttore del Centro nazionale di ricerca e valutazione del farmaco dell’Istituto superiore di sanità: “La cancellazione dell’esenzione non avrà ricadute sui pazienti né tantomeno sulle aziende produttrici, che continueranno a essere tutelate attraverso numerosi incentivi a livello europeo. Godono, infatti, di vantaggi fiscali e dell’esclusività di mercato, nel senso che le altre ditte non possono mettere in commercio farmaci con la stessa indicazione terapeutica”.

E poi – aggiunge la farmacologa – possono “contare su un supporto gratuito di esperti scientifici messo a disposizione dall’Agenzia europea del farmaco durante tutta la fase di sviluppo del farmaco, e di procedure di registrazione più snelle e veloci”. Popoli inoltre invita a non sottovalutare possibili derive: “Purtroppo alcune aziende nel corso degli anni hanno approfittato di questi vantaggi mettendo sul mercato, a prezzi elevatissimi, molecole vecchie magari semplicemente riformulate in altra maniera”.

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